Donald Francis “Don” Shula
Donald Francis Shula nacque il 4 gennaio 1930 a Grand River, in Ohio, terra di grande tradizione e da sempre serbatoio di grandi coach. Don era il quarto dei sette figli di Dan e Mary Shula, una famiglia di immigrati ungheresi. Don Shula trascorse l’infanzia nei sobborghi di Cleveland, prima di iscriversi alla Harvey High School di Painesville, dove iniziò la sua carriera di giocatore di football come halfback. Nella sua stagione da senior, la Harvey chiuse il campionato con 7 vittorie e 3 sconfitte, il miglior record in 18 anni. Alla High School, il giovane Don si dedicò anche al baseball, al basket ed alla corsa, attività che gli fruttarono ben undici borse di studio per il College. La scelta cadde sulla John Carroll University, l’università gesuita di Cleveland. Al College, il giovane Don affinò le sue doti di halfback e, con 125 yards corse, fu il trascinatore della squadra in una clamorosa vittoria che la piccola John Carroll ottenne contro la ben più blasonata Syracuse nel 1950. Nonostante la John Carroll University non abbia un programma sportivo di altissimo livello, Shula ha sempre considerato fondamentali gli anni trascorsi al College, capaci di “educare tutti gli aspetti di una persona”. E l’istituto non ha mai dimenticato il suo prodotto più famoso, dedicandogli addirittura lo stadio da football che prende il nome di Don Shula Stadium.

Don Shula Stadium
Nel 1951, Don Shula venne scelto al nono giro del Draft dalla squadra della sua terra, i Cleveland Browns, per giocare da defensive back. I Browns nei quali Shula approdò erano la squadra del momento: allenati dal leggendario Paul Brown, si affiliarono alla NFL nel 1950, e vinsero immediatamente il titolo. Don Shula giocò cornerback nel biennio 1951-52, senza riuscire tuttavia a raggiungere il titolo. Cleveland perse infatti la finale NFL contro i Los Angeles Rams nel ’51, e l’NFL Championship Game contro i Detroit Lions nel ’52.
Nel 1953 Shula venne ceduto ai Baltimore Colts in uno scambio che vide coinvolti ben 15 giocatori, e trascorse nei Colts quattro stagioni, dal ’53 al ’56.
I Colts, a differenza dei Browns, erano una squadra in costruzione, e nel periodo in cui Shula vi militò non riuscirono a concludere nemmeno una stagione con un record vincente. Tuttavia, dal 1954, Don ebbe modo di giocare sotto la guida di quello che sarebbe diventato il suo modello: Weeb Ewbank, discepolo di Paul Brown.
Nel 1957, Shula passò ai Washington Redskins, prima di ritirarsi al termine di quella stessa stagione.
Da giocatore, Don Shula dimostrò indubbiamente di avere dei numeri. In complesso, giocò 73 partite tra i pro, totalizzando 21 intercetti. La sua miglior stagione la giocò nei Colts nel 1954, totalizzando 13 presenze e 5 intercetti. Nel biennio 1954-55, inoltre, totalizzò la bellezza di 10 intercetti in 21 gare. Una carriera onesta, ma destinata a non passare alla storia. La passione di Shula per il football però non terminò con i suoi giorni da giocatore, ed anzi la sua vera vocazione non era ancora emersa.

Don Shula cornerback
Nella carriera da cornerback, come si è detto, Shula ebbe modo di conoscere due mostri sacri della sideline: Paul Brown e Weeb Ewbank. Basandosi sugli insegnamenti appresi dai suoi maestri, Don Shula costruì la sua carriera da allenatore. Carriera che iniziò nel 1958, subito dopo il ritiro, con il ruolo di assistant coach alla University of Virginia, e proseguì l’anno successivo alla University of Kentucky. Nel 1960, Shula tornò tra i professionisti, diventando defensive coordinator dei Detroit Lions. In poco tempo, tutti si accorsero delle incredibili capacità del giovane coach, sia dal punto di vista strategico che dal punto di vista mentale. Shula appariva come un grande motivatore, e soprattutto come una grande mente difensiva. Sotto la guida di Don Shula, il linebacker di Detroit Joe Schmidt vinse il titolo di MVP del campionato, e i Lions chiusero le stagioni dal 1960 al 1962 con un record sempre vincente (rispettivamente 7-5, 8-5-1, e 11-3). In tutti e tre gli anni, tuttavia, dovettero rinunciare ai sogni di gloria per la presenza di un avversario troppo grande per chiunque: i Green Bay Packers di Vince Lombardi.
Al termine della stagione 1962, i destini di Weeb Ewbank e di Don Shula si incrociarono di nuovo. Ewbank passò ad allenare i New York Jets, franchigia nata appena tre anni prima, e il proprietario dei Baltimore Colts, Carroll Rosenbloom, decise di affidare l’incarico di head coach a Don Shula. Shula divenne così il successore del suo mentore, ed all’età di 33 anni divenne anche il più giovane capo allenatore nella storia della NFL. Baltimore veniva da una stagione da 7-7, ma la squadra aveva talento, e soprattutto era guidata da uno dei migliori (se non il migliore) Quarterback di sempre: Johnny Unitas. Shula si limitò ad innestare nella squadra un gruppo di giocatori giovani, per limitare quegli infortuni che erano stati la piaga dei Colts nelle stagioni precedenti. Dopo un avvio difficile, Baltimore chiuse la stagione del 1963 con un bilancio di 8 vittorie e 6 sconfitte.
Dopo il primo anno, utile per acclimatarsi, Don Shula iniziò a mietere risultati di altissimo livello. Nel 1964, dopo aver perso la prima partita con Minnesota, Baltimore inanellò 10 vittorie consecutive, e vinse la Western Division con un record di 12-2. Il prosieguo si rivelò invece molto amaro per i Colts, che nell’NFL Championship Game contro Cleveland persero senza appello per 27 a 0. L’anno successivo, Baltimore fu costretta a giocarsi le speranze di postseason nell’ultima partita di regular season, a Los Angeles contro i Rams. La fortuna non sembrava sorridere a Shula, costretto a giocarsi quella partita con il terzo QB Tom Matte a causa degli infortuni di Unitas e del suo backup, Gary Cuzzo. I Colts vinsero ugualmente quella drammatica sfida per 20 a 17, e con un record di 10-3-1 si trovarono al primo posto della Western Division in compagnia di Green Bay. Nella gara di spareggio per decretare la vincitrice della Division, Baltimore non riuscì a ripetere il miracolo, cedendo ai Packers per 13 a 10 dopo 2 overtime. La corazzata di Vince Lombardi conquistò la Western anche l’anno seguente, il 1966, che i Colts chiusero con un bilancio di 9-5.
Il 1967 fu un altro anno deludente per Shula, che perse la Coastal Division a favore dei Rams, nonostante un ottimo record di 11-1-2. Ma fu solo un antipasto prima della stagione 1968, l’annata chiave di Don Shula in quel di Baltimore. Con Johnny Unitas fermo a causa di problemi al gomito, i Colts disputarono la stagione guidati dal backup Earl Morrall. Morrall vinse il titolo di MVP, e la difesa di Baltimore concesse il minimo storico di 144 punti, permettendo ai Colts di vincere facilmente la Coastal Division con l’impressionante record di 13-1. Nei Playoff, la banda di Shula prima si sbarazzò dei Minnesota Vikings (24 a 14), e poi distrusse l’odiata Cleveland (l’unica squadra ad aver battuto Baltimore in stagione regolare) con un eloquente 34 a 0. I Colts apparivano come l’invincibile armata, e la conquista del Superbowl III sembrava solo una formalità. Di fronte, Baltimore si trovò i New York Jets, allenati dall’ex Ewbank, e guidati sul campo da “Broadway” Joe Namath. Nonostante i Colts fossero dati vincenti di 19 punti dai bookmakers, con una frase che ha fatto storia Joe Namath garantì la vittoria dei Jets. Ed ebbe la meglio, perché nello stupore generale New York vinse il Superbowl 16 a 7, completando il più grande upset nella storia di questo evento. Don Shula le tentò davvero tutte per vincere quella partita, arrivando pure ad inserire il vecchio ed acciaccato Unitas nell’ultimo quarto. Ma era destino che doveva essere “Broadway Joe” ad uscire dal campo con l’indice alzato quella sera.

Don Shula a Baltimore
Psicologicamente distrutta dopo la clamorosa sconfitta del Superbowl III, Baltimore non riuscì a reagire nell’anno successivo, che terminò con un record di 8-5-1. Al termine della stagione, Don Shula venne lasciato libero di accasarsi in una delle squadre più disastrate d’America, i Miami Dolphins. Shula lasciò Baltimore con un record di 71-23-4, macchiato però da un brutto 2-3 in postseason. Miami pagò una prima scelta per lui, e non si pentì mai di averlo fatto: a partire dal 1970, infatti, Shula costruì un’era che durò 26 anni, e terminò con il suo ritiro nel 1995.
Nel 1969, l’anno precedente all’arrivo di Shula, i Miami Dolphins terminarono la stagione con un record di 3-10-1, ma avevano già inserito nella squadra alcuni futuri Hall of Famer quali il QB Bob Griese, il FB Larry Csonka, e il LB Nick Buoniconti. Una squadra buona, che aveva solo bisogno di un qualcosa in più per fare il salto di qualità. E quel “qualcosa” fu indubbiamente Don Shula che, presa in mano la squadra nel ’70, la condusse ad un record di 10-4 e alla prima, storica apparizione nei Playoff (che terminò con una sconfitta contro gli Oakland Raiders). Nel 1971, Shula portò a Miami il LB Bob Matheson per farne il fulcro della sua 53 defense, una difesa rocciosa ma priva di nomi di spicco, nota nei secoli come “No-name Defense”. In attacco, inoltre, Don Shula impose un atteggiamento conservativo, molto votato verso le corse del formidabile trio formato da Csonka (che divenne il primo giocatore dei Dolphins con 1.000 yards corse in stagione), Jim Kiick e Mercury Morris. Con questa ricetta, Miami vinse la AFC East con un record di 10-3-1. Nei Playoff, i Dolphins si recarono a Kansas City, dove si sbarazzarono dei Chiefs per 27 a 24 in una partita drammatica, la più lunga della storia della NFL. Nell’ AFC Championship Game, Shula si tolse la soddisfazione di umiliare la sua ex squadra, Baltimore, con il punteggio di 21 a 0. Nel Superbowl VI, però, i Dallas Cowboys si dimostrarono semplicemente troppo forti per Miami, che perse la finale con il punteggio di 24 a 3. In due soli anni in Florida, però, Shula aveva portato i Dolphins ai loro primi Playoffs, al loro primo titolo divisionale, e al loro primo Superbowl. Ed era chiaro che l’ascesa non sarebbe finita lì.
Nel 1972, con una squadra ormai consolidata e conscia della propria forza, Don Shula e i suoi Dolphins compirono un’impresa che tuttora non ha eguali: una perfect season. Miami vinse le prime quattro partite della stagione, ma nella quinta (contro i Chargers) patirono l’infortunio del QB Bob Griese. Il semi sconosciuto Earl Morrall gli subentrò, e portò Miami alla vittoria contro San Diego, alzando il bilancio di Miami a 5-0. L’infortunio di Griese, però, si rivelò molto serio, e impedì al QB di rientrare prima dei Playoff. Nonostante questo handicap, i Dolphins di Morrall continuarono a vincere domenica dopo domenica, contro qualsiasi avversario, e terminarono la stagione regolare con un record di 14-0. Miami giocò la prima gara di postseason contro Cleveland, e nonostante fosse sotto 14-13 nell’ultimo quarto, riuscì a spuntarla per 21 a 14 con un TD di Kiick. Nell’AFC Championship Game, che la sorte volle disputarsi a Pittsburgh contro gli Steelers, ancora una volta i Dolphins furono costretti a rimontare. E, in quella situazione difficile, Shula decise di giocarsi la carta Bob Griese. Con Griese in campo, e con un gioco speciale su una finta di punt, Miami la spuntò di nuovo, vincendo 21 a 17 e presentandosi al secondo Superbowl in due anni. In finale contro Washington, i Dolphins aggredirono la partita chiudendo 14 a 0 il primo tempo, e lasciando ai Redskins solo la soddisfazione di accorciare le distanze, in una partita che terminò 14 a 7. Per Miami fu il primo anello della sua storia, ma non fu quello l’aspetto più eclatante. I Miami Dolphins classe 1972 di Don Shula furono infatti la prima, e finora unica, squadra nella storia del football a terminare una stagione imbattuta, con un record di 17-0.
Nel 1973, i Dolphins concessero il bis. Galvanizzata dalla stagione precedente, la corazzata Miami concluse la regular season con un record di 12-2, il che regalò a Miami un bilancio di 26-2 nel biennio ’72-’73, un record NFL. I Dolphins si sbarazzarono facilmente di Cincinnati al primo turno di Playoff con il punteggio di 34 a 16, e si trovarono nell’AFC Championship Game ad affrontare gli Oakland Raiders. La gara aveva un sapore di sfida nella sfida, dal momento che era stata proprio Oakland a fermare la striscia vincente di Miami, sconfiggendola nella seconda settimana di stagione regolare. I Dolphins ebbero la loro rivincita, correndo 266 yard in faccia ai Raiders e vincendo per 27 a 10 il match. Miami divenne così la prima squadra di sempre a giocare 3 Superbowl consecutivi, questa volta contro i Minnesota Vikings. Come l’anno precedente, anche nel Superbowl VIII i Dolphins uccisero gli avversari nel primo tempo, che si concluse sul 17-0. Miami alla fine vinse la gara 24 a 17, dimostrando la sua mostruosa forza nel gioco sulla terra: Csonka corse 145 yard, e Griese lanciò solamente 7 palloni in tutto l’incontro.

Don Shula in trionfo
L’incredibile cavalcata di Miami era destinata a chiudersi nel 1974, una stagione influenzata dai primi screzi tra la NFL e giocatori, e dalla nascita della WFL, una Lega destinata a rubare ai Dolphins le loro maggiori star, incluso Larry Csonka. Nonostante fosse destinato alla WFL, Csonka giocò la stagione ’74 a Miami, che vinse la AFC East con un record di 11-3. I Dolphins estesero, tra l’altro, il numero di partite consecutive vinte in casa a 31, un altro record NFL. Nel Divisional Playoff, Miami e Oakland si trovarono di nuovo di fronte, ma questa volta furono i Raiders ad imporsi per 28 a 26. I Dolphins caddero dunque dal trono della NFL, ma rimasero comunque degli avversari ostici. Nel 1975, infatti, contesero ai Baltimore Colts il titolo divisionale fino all’ultima partita della stagione, che però persero proprio contro i Colts per 10 a 7 in overtime. Nonostante il record di 10-4, dunque, Miami mancò i Playoff per la prima volta nell’era Shula. Ma non era questo l’aspetto più preoccupante: degli uomini che avevano condotto la squadra al titolo, una parte era troppo vecchia per far la differenza, e una parte aveva già abbandonato Miami per altri lidi. Così, nel 1976, i Dolphins caddero nella mediocrità, e terminarono la stagione 6-8, la prima di segno negativo con Don Shula sulla sideline.
Nel 1977 Miami tornò a chiudere la stagione con un record positivo, 10-4, ma rimase esclusa dai Playoffs per il terzo anno consecutivo. I Dolphins tornarono a far sentire la loro voce nel 1978, guidati da un Bob Griese autore di due anni (’77 e ’78) ad altissimi livelli, e da un RB come Delvin Williams capace di correre 1.258 yards in stagione. Miami chiuse la stagione con un record di 11-5, entrando nei Playoffs con la neonata Wild Card, e perdendo immediatamente contro gli Houston Oilers. Una sorte simile capitò nel 1979, anno del ritorno a Miami di Larry Csonka, con i Dolphins che chiusero la stagione regolare con un 10-6 e con il primo titolo divisionale degli ultimi 5 anni. In postseason, però, i Dolphins andarono a sbattere contro i Pittsburgh Steelers campioni in carica, rimediando una sconfitta per 34 a 14. Ormai, anche le ultime stelle rimaste dall’inizio degli anni Settanta si stavano spegnendo, ed in particolare Griese era prossimo al ritiro. Giocò un’ultima stagione nel 1980, ma i risultati furono mediocri, ed i Dolphins chiusero 8-8 e fuori dai Playoffs.
L’inizio degli anni Ottanta segnò l’avvento di nuovi giovani giocatori a Miami. Ormai tramontata la “No-name Defense”, dal 1981 la rivoluzionata difesa dei Dolphins venne soprannominata “Killer Bees”, a causa del gran numero di giocatori il cui cognome iniziava con la lettera “B”. Il QB, invece, rimase un problema, dal momento che il ritiro di Griese aveva lasciato un enorme vuoto in quella posizione. Nonostante questo, Miami vinse la AFC East con un record di 11-4-1, prima di soccombere per mano dei San Diego Chargers nel Divisional Playoff. Ma era solo l’avvisaglia di un’altra stagione da Superbowl. Nel 1982, la stagione venne accorciata dallo sciopero, e Don Shula fu particolarmente coinvolto nella questione. Shula e Jimmy Cefalo, il giocatore dei Dolphins che aveva il ruolo di delegato sindacale, erano soliti incontrarsi a discutere sul futuro della Lega, e stando alle parole di Cefalo non sempre i toni furono pacati. Al rientro sui campi da gioco, i Dolphins chiusero la stagione accorciata con un record di 7-2, che valse un posto ai Playoffs. Sulla strada verso la finale, Miami prima sconfisse New England (28 a 3), poi contenne il formidabile attacco di San Diego grazie ad un’ottima prova dei Killer Bees (punteggio finale 34 a 13), ed infine eliminò i New York Jets per 14 a 0. I Miami Dolphins disputarono così il quarto Superbowl dell’era Shula, contro i Washington Redskins, in un rematch della finale di dieci anni prima. Ed i Redskins ebbero la loro rivincita. Infatti, a causa dell’inconsistenza dei suoi QBs e della favolosa prestazione del RB di Washington John Riggins, Miami perse il Superbowl XVII con il punteggio di 27 a 17 dopo essere stata avanti 17 a 10 all’intervallo.
“Certo, la fortuna conta molto nel football. Non avere un grande QB è una bella sfortuna”. Questa frase di Don Shula fu più che mai profetica nel Superbowl XVII, quando i due QBs dei Dolphins (David Woodley e Don Strock) completarono un solo passaggio in tutto il secondo tempo. Deciso a non ripetere quell’esperienza, nel 1983 Shula scelse al Draft un giocatore che sarebbe presto diventato una divinità a Miami: Dan Marino. Con il giovane Marino a guidare la squadra, i Dolphins vinsero la AFC East con un record di 12-4, ma persero nei Playoffs contro i Seattle Seahawks per 27 a 20. E nel 1984, sempre guidata da Dan Marino che macinava un record dietro l’altro, Miami veleggiò verso un altro titolo della AFC East con un record di 14-2, arrivando al Divisional Playoff dove ebbe un rematch contro Seattle. Questa volta, i Dolphins batterono i Seahawks 31 a 10, e si avviarono verso il Championship contro Pittsburgh. L’attacco aereo di Miami fu letale anche per gli Steelers, che persero 45 a 28, e per i Dolphins fu il secondo titolo della AFC in tre anni. Il Superbowl XIX, però, sembrò uno scoglio insormontabile: Miami si trovò di fronte la squadra dominatrice di quegli anni, i San Francisco 49ers, e li dovette affrontare a Palo Alto, a pochi chilometri da San Francisco. Il match si rivelò fin troppo simile alle attese, con i 49ers guidati da Joe Montana che batterono i Dolphins 38 a 16, dimostrando di essere semplicemente più forti dei ragazzi di Don Shula.

Jimmy Cefalo
Shula aveva comunque dimostrato di saper adattare la propria filosofia di gioco alle varie epoche e al personale che aveva a disposizione. Alla squadra degli anni ’70 che viveva e moriva con il gioco di corsa, Don Shula sostituì una squadra basata sul gioco aereo, sfruttando le enormi qualità di Dan Marino e di due ricevitori passati alla storia come i “Mark Brothers”: Mark Clayton e Mark Duper. Avvantaggiato da questo nuovo sistema offensivo, Marino diventò nel corso degli anni il più grande passatore puro di ogni tempo. I Miami Dolphins, per contro, diventarono pian piano sempre meno competitivi a causa di grosse lacune nel resto della squadra. Nel 1985, trovarono comunque l’ispirazione per vincere di nuovo la AFC East con un record di 12-4. E, cosa più importante, i Dolphins regalarono a Shula una vittoria contro i Chicago Bears, importante perché fu l’unica partita persa dai Bears quell’anno, e dunque non poterono eguagliare la perfect season dei Dolphins del ’72. Miami perse poi nei Playoffs contro i New England Patriots nell’AFC Championship Game, dopo che nel Divisional batterono Cleveland in rimonta.
Dopo la stagione 1985, Miami dovrà aspettare 6 anni prima di tornare ai vertici della AFC East. Nonostante Dan Marino continuasse a polverizzare tutti i record esistenti, la banda di Don Shula non riuscì ad andare oltre un mediocre 8-8 nel 1986, un 8-7 nel 1987, e un 8-8 nel 1989. La parabola discendente toccò il minimo nel 1988, quando Shula subì la sua seconda stagione perdente dall’inizio della carriera, con i Dolphins che terminarono 6-10 in coda alle rivali della AFC East. Per rivedere Miami nei Playoffs fu necessario attendere il 1990, quando i Dolphins conquistarono facilmente un posto nella postseason con un record di 12-4. Miami non riuscì però a conquistare il titolo divisionale, andato ai Buffalo Bills che vinsero lo scontro diretto con i Dolphins nel finale di stagione. Miami vinse in rimonta la partita casalinga contro i Kansas City Chiefs nel turno di Wild Card, con il punteggio di 17 a 16. I Dolphins dovettero però arrendersi di nuovo ai Bills nel Divisional Playoff, in una partita altamente spettacolare terminata 44 a 34.
Nel 1991, Don Shula soffrì dal punto di vista personale della scomparsa della moglie Dorothy, un lutto che lo toccò profondamente. A peggiorare le cose, i risultati sul campo non furono dei migliori: Miami chiuse la stagione 8-8, seconda ex aequo nella divisione, ma fuori dai Playoffs. I Dolphins mostrarono però degli evidenti segnali di risveglio l’anno successivo, chiudendo la stagione 11-5 e tornando in vetta alla AFC East. Dopo aver liquidato 31 a 0 i San Diego Chargers nel Divisional, tra i Dolphins e il Superbowl rimaneva il solito, vecchio ostacolo: i Buffalo Bills, dominatori in quegli anni della AFC, che avevano già vinto nelle due stagioni precedenti. Alla fine, i titoli di Conference vinti consecutivamente da Buffalo furono quattro (nuovo record NFL), tra cui appunto quello del 1992 vinto contro Miami, e terminato 29 a 10.
Miami non ebbe modo di ripetersi l’anno successivo, il 1993, che chiusero con un record di 9-7 e con l’esclusione dai Playoff. A condizionare la stagione fu una incredibile serie di infortuni, in attacco ed in difesa, che partì da Marino ed arrivò perfino al secondo QB Scott Mitchell. La crescita di giocatori in infermeria coincise con il calo dei Dolphins, che si trovarono 9-2 prima di perdere le ultime 5 gare della regular season. Ma quella stagione fu comunque storica per l’head coach di Miami. Il 14 novembre 1993, con la vittoria per 19 a 14 contro i Philadelphia Eagles (ottenuta con in campo il terzo QB, Doug Peterson), Don Shula ottenne la sua 325ma vittoria in carriera e superò George Halas come leader di ogni epoca.
Nel 1994 Shula conquistò l’ultimo titolo divisionale della sua storia, con i suoi Dolphins che chiusero la stagione 10-6. Storico fu il match del 2 Ottobre tra Miami ed i Cincinnati Bengals allenati da David Shula, figlio di Don: fu la prima volta nella storia dello sport professionistico in cui si scontrarono due squadre allenate da padre e figlio. I Dolphins vinsero la AFC East, ma dovettero passare per il turno di Wild Card contro i Kansas City Chiefs, in una partita vinta 27 a 17. Il Divisional Playoff fu un’autentica doccia fredda per i Dolphins, che contro San Diego guidarono tutta la gara, salvo essere superati a 35 secondi dal termine, ed essere sconfitti per 22 a 21.

Don Shula con Dan Marino
Il 1995 segnò la fine di un’era in quel di Miami. I Dolphins chiusero la stagione 9-7, classificandosi secondi nella divisione, e perdendo poi nel turno di Wild Card contro Buffalo per 37 a 22. Il nuovo proprietario dei Miami Dolphins, H. Wayne Huizenga, decise che Don Shula aveva ormai dato tutto a questa franchigia, e lo spinse verso il ritiro per far posto a Jimmy Johnson. Nonostante il modo poco delicato con cui Huizenga costrinse Shula al ritiro, al coach uscente venne riservato un posto nel front office. Don Shula abbandonò presto questo ruolo e si allontanò dall’organizzazione dei Dolphins a causa dei dissidi che nacquero proprio con Jimmy Johnson, riavvicinandosi all’ambiente solo con l’avvento del nuovo coach, Dave Wannstedt, nel 2000. Nel 1998, Shula si legò ad una cordata che voleva riportare una franchigia a Cleveland, la sua città natale, ma l’iniziativa fallì e fu un’altra organizzazione a far rinascere i Browns.
Don Shula concluse quindi la carriera di head coach con 33 anni di attività alle spalle, terzo miglior risultato di sempre nello sport professionistico dietro Connie Mack (53 anni da manager nel baseball) e George Halas (40 anni da allenatore di football). Il record collezionato in carriera parla di 347 vittorie, 173 sconfitte e 6 pareggi, che lo rendono il coach più vincente della storia della NFL. Shula ha collezionato solamente 2 stagioni perdenti (1976 e 1988, entrambe con Miami) in quei 33 anni, e nello stesso arco di tempo le sue squadre hanno vinto 10 o più partite in 20 differenti occasioni, compresa la tuttora ineguagliata perfect season del 1972. I Miami Dolphins di Shula, inoltre, hanno chiuso al primo posto nella AFC East per 15 volte. Nei Playoffs, Don Shula ha un bilancio di 19 vittorie e 17 sconfitte, ha partecipato a 6 Superbowl (il numero III con Baltimore, i numeri VI, VII, VIII, XVII e XIX con Miami), vincendone 2 (VII e VIII, entrambi con i Dolphins), ed è ad oggi l’unico coach insieme a Marv Levy ad aver raggiunto 3 Superbowl consecutivi.
Il successo di Don Shula non si ferma all’ambito sportivo, ma prosegue nel campo degli affari. Shula è infatti proprietario di un lussuoso albergo e del relativo Golf Club che prendono il suo nome (Don Shula’s Hotel e Don Shula’s Golf Club, che si trovano a Miami Lakes, in Florida). Ma soprattutto, è proprietario della celebre catena Don Shula’s Steakhouse Inc., le cui ottime steakhouses sono diffuse in tutta la Florida e non solo, arrivando fino al Maryland. Shula ha anche firmato, con Ken Blanchard, un popolare libro dal titolo “Everyone’s a Coach”, diventato un must per ogni amante del football. Come riconoscimento per la sua spaventosa carriera, Don Shula ricevette nel 1993 il titolo di Sportsman of the Year dalla rivista “Sports Illustrated”, e l’Horatio Alger Award (premio riservato ai più autorevoli cittadini americani) nel 1994. Inoltre, il quotidiano “The Ledger” lo ha eletto tra i 50 abitanti della Florida più influenti del Ventesimo secolo.

Dal primo matrimonio, Shula ebbe cinque figli, di cui tre femmine: Donna, Sharon e Annie. I due figli maschi hanno seguito le orme del padre e hanno tentato la carriera da head coach. Il maggiore, Dave Shula, ha allenato i Cincinnati Bengals dal 1992 al 1996, attualmente ha abbandonato il football ed è presidente della Don Shula’s Steakhouse Inc.. Il minore, Mike, non ha mai allenato nella NFL se non da assistente, lavorando anche per suo padre nei Dolphins. Dave e Mike hanno avuto l’onore di introdurre il padre nella Hall Of Fame, alla quale Don Shula appartiene dal 1997.

Il busto conservato a Canton renderà senza tempo quel grande coach e quel grande uomo che è stato Don Shula, e la sua carriera trascorsa sempre al vertice, costruita unicamente con tanto, tanto lavoro.
Splendido articolo. Grazie Ivan 😉
Complimenti, Ivan. Un articolo bellissimo, scritto con grande passione e competenza.
Articolo speciale x il mitico Don Shula
Thanks