Il secondo anno di Goodell

E’ difficile capire se il quarantanovenne Roger Goodell sia più sfortunato dei suoi predecessori o, semplicemente, se chi ha governato la Nfl prima di lui sia stato molto più abile a tenere nascosta sotto il tappeto di casa la polvere di grossi grattacapo; è certo che la gestione dell’attuale commissioner, cominciata ufficialmente il primo settembre 2006, non è delle più tranquille di sempre, anche per via di un rapporto tra giorni passati sul trono e casi esplosi più o meno improvvisamente davvero imbarazzante. Goodell ci ha messo del suo e, va detto, chi siede nel posto occupato ora da lui, è perché ha idee, e metodi, che piacciono ai proprietari delle franchigie, di fatto il popolo elettorale. Nessun commissioner si metterebbe di traverso su certe proposte, o anche solo su certe discussioni, avvenute e confermate prima della propria elezione. Chi arriva nella stanza dei bottoni è, tutto sommato, l’eletto dei presidenti, il figliol prodigo, l’uomo (che loro ritengono) ideale da mettere nel posto giusto. Le sue colpe, in senso estremo, sono le colpe di tutto il pianeta dominante della National Football League.

Non solo problemi di carattere “legale” da quasi due anni a questa parte, ma tante, tantissime controversie, e se risulta evidente che le tragiche morti di Darrent Williams e Sean Taylor non possano essere imputate al governo Nfl, benché ne abbiano tragicamente sconvolto gli animi e la facciata di Lega in fase di repulisti, così come gli infortuni, anche gravi, come quello di Kevin Everett dei Buffalo Bills all’esordio della passata stagione, è altrettanto evidente che il controllo dello sceriffo all’interno della propria contea abbia avuto i suoi begli alti e bassi. In primo luogo l’Nfl Player Conduct, una serie di norme che obbligano gli atleti della Lega a rispettare determinati comportamenti fuori dal campo; in particolare, è loro imposto di rispettare le leggi in vigore nello stato in cui risiedono. Sembrerà una banalità, dovrebbe essere ovvio per qualsiasi cittadino rispettare le leggi, ma non è scontato che in mezzo a centinaia di atleti tutti siano assolutamente coerenti con quanto dichiarato dai vari codici penali, soprattutto quando si parla di ragazzi usciti dal ghetto ma che, il ghetto, lo portano ancora nel cuore.

La linea è quella giusta, l’atteggiamento con cui viene affrontato un po’ meno. Goodell stabilisce che il commissioner, e soltanto lui, abbia il diritto di decidere chi, come, e per quanto tempo debba essere squalificato per aver avuto problemi con la legge. Il primo passo, nel momento in cui un giocatore viene pizzicato a infrangere qualche paragrafo del codice, è quello di convocare lo stesso e chiedere spiegazioni; durante il tempo in cui le indagini della giustizia ordinaria procedono, in un moto che fa sembrare quella nostrana ancora più lenta di quanto non sia, il giocatore è messo “sotto sorveglianza” con l’obbligo di evitare la reiterazione di certi comportamenti. Il terzo passo è, dopo la sentenza, o prima se qualche evento modificasse le carte in tavola, decidere se e come punire il colpevole. Ovvio che se la giustizia ordinaria desse esito di condanna la Nfl, o meglio Roger Goodell, si allinei con essa, non altrettanto scontato l’opposto, soprattutto se l’imputato non è nuovo a certe “segnalazioni”. Come per i “compensatory pick”, la regola c’è, scritta da qualche parte, ma non è per niente chiara ai più. Lasciando poi la parola unica al solo commissario, diventa evidente che più di un problema possa emergere. Le squalifiche più celebri, lo sappiamo, sono quelle che hanno coinvolto Pacman Jones (una stagione di squalifica dopo aver scatenato l’inferno in un night di Las Vegas, “capriccio” degenerato in sparatoria con tanto di guardia giurata destinata alla sedia rotelle per il resto dei suoi giorni), Tank Williams (10 partite), Chris Henry (8) e Michael Vick (a tempo indeterminato e, attualmente, in carcere per la triste storia sui combattimenti tra cani). Pace e bene, tutti delinquenti messi in riga. Che male c’è, direte voi. Nulla finché le punizioni sono queste, per carità, solo che la legge di Goodell non prevede alcune situazioni e, alle volte, agisce più rapidamente di quella ordinaria. Come per Pacman Jones, personaggio fuori dalle righe e violento finché si vuole, ma sospeso prima ancora che una qualche giuria si pronunciasse.

Problema numero uno, quindi: se il giudice assolve un giocatore squalificato che si fa? Se il suddetto giocatore querela la Nfl e si presenta con un possente esercito di avvocati che si fa? Se la Nfl, come probabile, perde la causa il risarcimento quanto vale? Quanto vale per un giocatore che costa milioni di dollari l’anno? E se anche la squadra si mette a piangere e chiede risarcimenti? Non è previsto nulla per questi casi… pazzesco, ma è così. Goodell fa il bello e il cattivo tempo, Goodell decide e si assume la responsabilità di ogni cosa. Se poi la cosa va male non siamo in grado di stabilire come finirà e quale potrebbe essere la punizione da infliggere al commissioner.

Ci si è messo poi Keyshawn Johnson, ex ricevitore di talento della Nfl che evidenzia come queste procedure riguardino i giocatori della Nfl e non tutti coloro che lavorino per essa. Addirittura, specifichiamo noi, si è perseguibili dal pugno di ferro di Goodell fin dal giorno in cui ci si rende eleggibili per il draft. “Cosa succederebbe a un coach, un GM o un presidente che venissero trovati a guidare con il limite alcolico oltre il consentito?” si chiede “Give me the damn ball” Johnson. Nulla, a quanto ne sappiamo; perlomeno nulla di grave quanto ciò che accade a un giocatore. Perdere una stagione sul campo non è, se non a peso di stipendio, come perderla dietro a una scrivania dove, mal che vada, si mette un prestanome, un sostituto che prende ordini da chi di dovere. In ogni caso, non siamo certi che un dirigente verrebbe punito e, questo, è certamente un buon “punto numero 2” tra quelli lasciati in parte scoperti dal diktat goodelliano.

Diktat che ha tentennato, non poco, quando sul banco degli imputati è salito Michael Vick, uomo immagine e miniera d’oro per Nfl, Nike e decine di altri marchi; un caso che ha visto temporeggiare, inutilmente, il commissario e che è costato anche un pesante dibattito razziale in Georgia, dibattito certamente incompatibile con quanto ha poi deciso il comandante in capo. Un caso che ha fatto vacillare decisamente la figura di Goodell. A tutto questo va aggiunta la totale discrezionalità con cui, sempre Goodell, ha deciso di trattare l’ormai celebre caso Spygatre che ha coinvolto Bill Belichick e i New England Patriots.

Partiamo da un semplice presupposto: nessuno di noi ha visto le immagini e ciò su cui si basano i nostri sospetti, le nostre eventuali accuse, non sono altro che aria fritta, congetture che si basano sul sentito dire e che, in qualsiasi stato civile, non farebbero finire in carcere nemmeno il peggiore degli assassini tanto sono vacue, impresentabili, senza fondamento. Tutto il can-can creatosi dopo che i NY Jets erano riusciti a fermare un uomo dello staff dei Pats armato di videocamera e intento a riprendere i segnali del defensive coordinator dei newyorchesi si basa, solo ed esclusivamente, su improvvisi ricordi di questo o quel giocatore, di quel tale allenatore che un giorno, forse, ha visto o gli è sembrato di vedere che… insomma, un inaccettabile metodo di accuse lanciate a metà, giusto per creare burrasca. Mentre, però, attendiamo testimonianze più concrete, sottolineiamo come sia stato altrettanto inaccettabile, da parte di Goodell, bruciare i filmati requisiti alla squadra di Boston. Per poco che contenessero, per quanto si tratti di un’azienda privata e senza che vi sia un procedimento penale della Corte Federale aperto, dare alle fiamme le uniche prove di quanto potrebbe essere accaduto è un gesto ingiustificato. Anche perché risulta difficile credere che la multa più salata mai affibbiata dalla Nfl (contro Belichick) e la perdita di una prima scelta, siano sentenze emesse per il solo ritrovamento della videocamere alla prima giornata e poco più.

Tralasciando che solo ora si è deciso di dotare di radio anche un giocatore difensivo (ma solo uno eh, quindi attenzione a che giocatori fate ruotare in campo!), lascia poi perplessi che il presunto tentativo dei San Francisco 49ers di contattare Drew Rosenhaus, agente di Lance Briggs, per testare il terreno sul passaggio di un restricted free agent alla propria corte (comportamento illegale) sia stato punito con assoluta tempestività con la perdita di una scelta al prossimo draft per i californiani. Dall’incendio delle prove di un caso davvero bollente alla immediata penalizzazione di un’altra franchigia per una telefonata; e non parliamo di telefonate in triste stile Calciopoli, ma di quello che, ironicamente, potremmo definire come indagine di mercato. Per gettare altra benzina sul fuoco potremmo anche aggiungere che, a quanto pare, Rosenhaus non ha nemmeno risposto al telefono in quelle due occasioni.

A Frisco non si scompongono: è la regola, dicono, basta che valga per tutti. Ma il pensiero torna là, a Belichick e ai filmati bruciati, a Pacman Jone punito prima che il giudice, quello vero, aprisse bocca, e Vick mantenuto sul limbo dell’innocenza quasi che la speranza fosse che, prima o poi, qualcuno smentisse o, ancor meglio, ci risvegliassimo tutti dopo un brutto sogno. Nessun cane, nessun combattimento, nessun problema.

Non vorremmo scivolare nel banale, non vorremmo tirare fuori il discorso doping, problema che andrebbe trattato con maggior decisione, né ci vogliamo scordare che, sotto il regno Goodell, la Nfl ha cominciato ad investire più soldi nel supporto di ex atleti, nella ricerca e nelle cure per la demenza senile, terribile malattia che sembra colpire molti degli eroi del passato. Ovvio, però, che servano prese di posizioni più coerenti e con regole ben scritte, anche quanto ai miseri compensatory pick che, lo giuriamo, nessuno sa come funzionino ad eccezione della regola base che dà diritto a una squadra di ottenerne o meno. Pazzesco. Com’è pazzesco che Goodell abbia scritto regole di perfezione sapendo di non essere, lui per primo, un uomo perfetto (e ci mancherebbe), lasciando che eventuali vuoti legislativi restino di sua esclusiva competenza. Così com’è pazzesco pensare che uno dei primi interessi dell’attuale capo della Nfl sia stato quello di punire le esultanze eccessive in campo, elemento di folklore puro che, quando non sfocia in demenza pura o svilimento dell’avversario, rimane uno degli attimi più amati dall’appassionato. Non possiamo lasciarcelo scappare, no, una frecciatina come tante, ma Goodell non investe troppo tempo per l’antidoping pur proibendo ai giocatori di sbattere il pallone in terra dopo una bella giocata (per i nostri giornalisti: è la regola che, in Italia, avete diffuso come il divieto di sputare sul terreno. Complimenti).

Per non volere poi rigirare il coltello in una piaga sempre più aperta, quella del salary cap, che per la seconda volta piomba sulla testa del rosso sceriffo. Una sfida dura in una mare in tempesta mentre lui, e qui va l’applauso (almeno uno, concediamolo, non parliamo del demonio), propone, infischiandosene di tutte le minacce, un tetto salariale per i rookie. Forse questa idea diverrà solo merce di scambio, ma è un primo passo. Per il resto, caro commissioner, speriamo che prenda la strada che due suoi grandi predecessori sono riusciti a tenere: più stabilità, più chiarezza e più coerenza possibili. Nei limiti del difetto di noi comuni mortali. Parliamo di Pete Rozelle e Paul Tagliabue, ovviamente, i due signori che l’hanno preceduta, tra vizi e virtù. E non pensiamo che questi fossero solo bravi a spazzare la polvere sotto il tappeto.