Quale scenario per il titolo nazionale?
Nulla di nuovo sotto il sole. Nessun upset è difatti arrivato nella scorsa giornata di college football, fatto che ha decretato l’esatto ripetersi delle prime cinque posizioni già assegnate quindici giorni fa, quando era stata pubblicata la prima classifica Bcs della presente stagione. Le principali protagoniste hanno vinto tutte quante, chi con maggiori difficoltà, vedi ad esempio Texas, chi con minori, leggasi Oklahoma, che si è persino potuta permettere di giocare un tempo solo, il primo, sufficiente per segnare 55 punti alla malcapitata Kansas State.
La Big 12 continua a fungere da conference a sé stante, per assegnare difatti il titolo nazionale bisognerebbe giocare un playoff apposito, in quanto due delle maggiori potenze arrivate sin qui imbattute non solo appartengono allo stesso raggruppamento, ma pure alla stessa division, la South, rendendo questo finale di regular season un qualcosa di eccezionale.
E mentre sarà la matematica a condannare una di esse, vale a dire la Texas della favolosa coppia McCoy-Shipley o la Texas Tech degli altrettanto fantastici Harrell (nella foto) e Crabtree, che incroceranno caschi e paraspalle tra due giorni, i media americani cominciano a vivere l’apprensione del periodo Bcs, normalmente concomitante con l’uscita del primo ranking calcolato dai computers, il che fornisce puntualmente numerosi motivi per discutere, polemizzare, fare e disfare a piacimento.
Questa settimana la Espn si è divertite a costruire quattro scenari apocalittici, che metterebbero nelle peste il sistema così com’è sempre stato concepito, promuovendo la spinta dal basso di un tanto richiesto sistema playoffs ad eliminazione diretta, dove la verità la direbbe il campo, non più un ammasso di fili. Nel primo Texas, Alabama e Penn State, le prime tre squadre della classifica, finirebbero imbattute, ponendo enormi grattacapi ai calcoli per determinare chi, tra queste, meriterebbe di andare al National Championship di Miami, lasciandone inevitabilmente fuori una, che da imbattuta andrebbe sì a giocarsi in ogni caso un Bowl importante, ma altresì privata di una grande possibilità nonostante i meriti ottenuti proprio sul campo.
Nel secondo scenario le tre squadre sopra menzionate terminerebbero il campionato ognuna con una sconfitta, facendo rientrare nel giro Oklahoma, supponendo che questa non perda più da qui alla fine della regular season: ci si ritroverebbe quindi con quattro università allo stesso bilancio, tutte con una sconfitta soltanto, dovendo determinare come unico criterio la difficoltà del calendario affrontato, quindi la qualità delle vittorie ottenute, fattore risultante non solo dai conti del cervellone, ma anche dai voti degli allenatori delle 119 università rappresentate in Fbs.
Tali fattori ci portano direttamente al terzo scenario, probabile ma non impossibile, che vedrebbe una vincitrice di conference, Big 12 o Sec prendendo le due leghe più forti, posizionarsi davanti ad una squadra imbattuta ad esempio Penn State, avente la sola colpa di aver dovuto affrontare degli impegni meno proibitivi rispetto alle carneficine delle conferences appena menzionate, il che andrebbe a creare sicure e fertili polemiche per le modalità di decisione. Per assurdo potrebbe rivelarsi più corretto il quarto ed ultimo scenario, il quale vede addirittura una squadra che non vince la propria conference, e qui l’esempio potrebbero essere solo i Sooners, aggiudicarsi un posto in Finale finendo davanti a Texas, qualora questa venisse ipoteticamente sconfitta da Missouri in un’altrettanto ipotetica finale della Big 12, giocandosi il titolo con gli imbattuti Nittany Lions.
Quattro scenari che fanno riflettere profondamente su un sistema playoffs che dovrebbe prendere le migliori squadre del ranking, decretando con un risultato scaturito da una partita secca chi davvero meriterebbe di giocarsi il titolo e soprattutto che spegnesse le valanghe di polemiche che da novembre a gennaio ci si deve sorbire, polemiche che catturano più attenzione delle partite stesse.
Dato che si parla di unbeatens sembra doveroso scrivere qualche riga su Tulsa, che per la prima volta dal 1942 è 8-0 e che si sta mettendo in luce sul palcoscenico più importante nonostante l’appartenenza ad un raggruppamento non troppo competitivo come la Conference Usa.
Molto del successo dei Golden Hurricane gira attorno all’attacco, che l’anno scorso era stato il migliore di tutta l’America, 544 yards di media, sotto la capace guida del quarterback Paul Smith, il quale aveva infranto un record d’ateneo dopo l’altro arrivando a quota 10 vittorie, miglior risultato di squadra degli ultimi sedici anni. Era proprio per questo motivo che nessuno si aspettava che Tulsa potesse ripetersi a tali livelli dopo la fine dell’eleggibilità collegiale di Smith, al quale era succeduto nel frattempo David Johnson, che nel suo primo anno da titolare ha giocato alla grande confermando l’attacco come primo della nazione per total offense, e ponendosi quale quarterback più preciso d’America, primo com’è nella speciale classifica della passing efficiency.
Johnson, che in una sola occasione ha lanciato meno di tre passaggi da touchdown, ha affrontato una situazione spinosa, che lui sapeva di dover vivere attraverso perenni confronti con il suo predecessore, situazione attraversata con successo grazie alla fiducia nei propri mezzi ed all’ascolto verso il proprio allenatore, i cui consigli si sono rivelati preziosi per riuscire a non stonare durante il primo atto. Al momento di questo articolo Johnson ha abbondantemente passato le 2.600 yards su passaggio tenendo una proporzione tra touchdowns ed intercetti di 32 a 9, è in media per battere alcuni dei records stabiliti da Smith e soprattutto sta conducendo questa squadra ad un bilancio che potrebbe rivelarsi addirittura migliore di quello già ottimo del 2007, ponendosi quindi tra i potenziali candidati all’Heisman Trophy e più realisticamente al Davey O’Brien Award, il premio assegnato al miglio regista della nazione a fine anno. Chi lo conosce bene dice che David si merita tutto quello che ha ottenuto finora, come ricompensa per aver atteso tanto tempo guardando Smith giocare al suo posto, senza mai fargli mancare l’incitamento e l’appoggio, senza mai lamentarsi per la sua continua permanenza in panchina, forte del fatto che la sua occasione, prima o poi, sarebbe arrivata. Avanti così.
Si avvicina la fine della regular season e tempo per recuperare, per chi ha cominciato male, ce n’è poco, o peggio ancora non ce n’è più. E’ già tempo di coaching carousel, una rubrica fissa per qualche sito di cronaca sportiva anche tra quelli più famosi, le prime panchine cominciano a traballare sul serio e si cercano nuovi adepti per il prossimo campionato, spulciando qua e là tra chi si renderà libero tra assistenti, head coaches e perché no, attuali impiegati in Nfl.Particolarmente sfavorevole è la situazione di Tyrone Willingham a Washington, ma già lo era prima della partenza di questa stagione, quando dai piani alti della dirigenza Huskies erano arrivate pesanti indicazioni in caso di ennesimo insuccesso rimediato dal coach, che era arrivato nel piovoso nord con l’intento di rialzare un programma decaduto riportandolo agli antichi fasti, senza neanche mai lontanamente riuscirvi.
Willingham sarà in tutto e per tutto un dead man walking, nel senso che terrà le cuffie fino all’ultima gara della stagione pur essendo stato formalmente licenziato lo scorso lunedì, considerato lo 0-7 fin qui registrato. La classica goccia che ha fatto traboccare una vaso arrivato all’orlo è stata l’ennesima, umiliante sconfitta, arrivata stavolta per mano di Notre Dame con un mortifero 33-7, che non ha fatto altro che confermare che qui di progressi ne sono stati fatti ben pochi negli ultimi tempi. Willingham, che proprio i Fighting Irish aveva allenato prima di trasferirsi nel nord ovest, non è riuscito ad interrompere una striscia negativa di gare arrivata a quota nove, comprendente quindi anche un paio di uscite risalenti al 2007, non ha risollevato un attacco tra i peggiori della nazione e nemmeno la terzultima difesa d’America, arrivata a concedere 480 yards e quasi 40 punti ad uscita, ed è riuscito nella non edificante impresa di compilare almeno sei sconfitte consecutive in ciascuna delle quattro stagioni passate ad allenare Washington, con il tassametro attualmente fermo a quota 11-42.
Dalla sede del campus spuntano fuori voci giornaliere sul nuovo candidato, che avrà lo stesso compito affidato un tempo a Willingham, ovvero quello di risollevare un programma un tempo vincente: ecco saltare fuori i nomi di Gary Pinkel, attuale head coach di Missouri, Will Muschamp, il mago della difesa di Texas, Chris Petersen, l’innovativo allenatore di Boise State, ma anche di Lane Kiffin, maltrattato ai Raiders da Al Davis, che verrebbe visto di buon occhio per la sua conoscenza approfondita della Pac 10, conference cui gli Huskies appartengono e dove Lane ha allenato, essendo stato parte integrante dello staff tecnico di Southern California.
Altra situazione precaria sembrerebbe essere quella di Tennessee, dove Philip Fulmer viene dato oramai per spacciato dai media, ma dove lo stesso ha bollato come male informati coloro che avevano fatto uscire le prime speculazioni sul caso, di seguito ai risultati notevolmente inferiori alle aspettative sinora ottenuti, con la squadra ferma a 3-5 ed una sola vittoria all’interno della Sec. Ci si aspettava che i Volunteers potessero competere alla pari con le principali forze del gruppo di università (alla pari della Big 12) più forte in circolazione, mentre a conti fatti ogni futuro confronto del rimanente calendario dovrà essere vinto per acciuffare in extremis un Bowl e nessuna delle tre vittorie rimediate fino a questo momento è arrivata nei confronti di un’appartenente alla Top 25.
La situazione di Fulmer non è tuttavia paragonabile a quella di Willingham a Washington, nel senso che l’attuale coach di Tennessee ha dedicato gli ultimi 35 anni della sua esistenza a tale causa, prima con l’uniforme da giocatore, quindi come assistente offensivo ed ora come grande capo, compilando in quest’ultima veste una percentuale di vittorie assestatasi sul 75%, con la soddisfazione del titolo nazionale del 1998.
Fulmer, pur comprendendo che di questi tempi i fans vogliono tutto e subito, al momento rimane una persona fermamente motivata per l’immediato futuro, contando sull’importante supporto dell’amministrazione universitaria, e si è più volte dichiarato fiducioso in un drastico cambiamento positivo della situazione attuale tramite il miglior apprendimento del nuovo sistema offensivo adottato da quest’anno, la spread offense, ed attraverso un gruppo di nuove leve che promette di essere tra i migliori dieci del 2009. Vincere le ultime quattro sfide, nessuna delle quali pare proibitiva, sarebbe già un buon inizio per la continuità del programma.
Se avete buona memoria ricorderete il particolare che distinse l’ultima sfida disputata tra Georgia e Florida, vinta dai Bulldogs per 42-30, caratterizzata da un’autentica invasione di tutti i componenti della squadra georgiana presso la endzone dove era stato appena segnato il primo touchdown della partita, gesto preso molto male da ogni Gator che si rispettasse. L’episodio, passato alla storia come “The Incident”, non si ripeterà nella sfida annuale che i due atenei disputeranno tra poche ore.
Il lavoro di Urban Meyer e Mark Richt, rispettivi allenatori delle due compagini, si è focalizzato sulla preparazione tattica tanto quanto su quella mentale, attraverso la ferma istruzione dei propri giocatori nell’evitare di menzionare l’accaduto ai giornalisti, che altrimenti avrebbero trasformato il tutto in un caos senza fine distraendo i ragazzi dalla partita, con preghiera di tenere ogni pensiero che toccasse l’argomento prettamente per se stessi, evitando anche di parlarne a qualche avversario.
Resisteranno i Gators alla voglia di prendersi una rivincita, casomai dovessero segnare loro per primi o vincere la partita? Dicono tutti che non è lo stile di Florida, quello, che ormai è acqua passata e che quello che conta è superare i Bulldogs per ottenere un altro successo prestigioso, come quello registrato qualche settimana addietro ai danni di Lsu. E mentre Meyer tenta di sviare le indagini puntualizzando come l’incapacità di placcare e le disattenzioni difensive fossero state la causa di quella sconfitta, si viene a scoprire (dai media, da chi altro?) che Tebow e compagni tengono da molto tempo una foto di quella celebrazione di massa nel proprio spogliatoio, che servirà da sicura motivazione per dare il tutto per tutto. Siamo quindi veramente sicuri che non vedremo una endzone tutta colorata di blu ed arancione?
Tempo 48 ore e lo scopriremo.
Grazie dave, come sempre ottimo articolo 😉