Stella cadente

Il titolo, lo sappiamo, è forse scontato ma ci è parso geniale. E non è opera nostra, ma abbiamo preso palla al balzo da un amico che ci ha indicato la via per presentare l’ultimo pezzo dell’anno. Sì, perché tra tutti i caduti più o meno celebri di questa ultima giornata di Nfl chi ha fatto il botto più grande è stata certamente la squadra che porta la stella sul casco, simbolo di uno stato tutto: il Texas, the lone star state, lo stato della stella solitaria. I Cowboys sono probabilmente la più grande delusione dell’anno, con i Chargers che, pur con un record peggiore, si salvano dalla nomina grazie a un’ultima partita magistrale, una qualificazione ai playoff con un titolo divisionale comunque in tasta e un mese di dicembre che li ha visti assoluti protagonisti.

Dallas è invece crollata a un passo dal traguardo anche se i segni di decadenza erano visibili già da un po’ di tempo. Il sospetto è che a un certo punto sia accaduto qualcosa, qualcosa tra le mura amiche, negli spogliatoi, tra le docce degli atleti. La squadra potenzialmente più forte in Nfc assieme ai NY Giants è crollata in modo inesorabile, ha perso partite assurde, ha rivissuto gli incubi degli ultimi anni con il gioiello Tony Romo che si opacizza, puntualmente, quando la situazione si scalda. E a Philadelphia non è andata diversamente. Un quarto in equilibrio col punteggio, 3-3, poi Donovan McNabb e soci dilagano e distruggono le speranze e i valori dell’avversario; 44-6 alla fine, una disfatta, un crollo.

Le cronache raccontano che i giocatori di Dallas, al ritorno, erano allegri e canticchiavano come un manipolo di boy scout in gita. Terrell Owens se la rideva già qualche ora prima, sulla sideline, mentre la sua squadra era affossata dall’ex amico e collega McNabb. Poco male, fa parte del personaggio, ciò che inquieta è come è avvenuto il crollo. Dopo il 3-0 iniziale la sconfitta con Washington e un andamento che cominciava a preoccupare soprattutto per il pessimo apporto delle secondarie. Pesano le sconfitte con Arizona (squadra che i Boys possono battere), con St. Louis (Brad Johnson o no, con ambizioni di playoff non sono i Rams a dover fare la differenza sul record finale) i sali scendi continui di un Romo spesso in difficoltà nonostante il parco ricevitori a disposizione. Una linea offensiva che, a un certo punto, non è più sembrata quella solida muraglia che eravamo abituati a vedere da mesi.

Il finale non era scritto, la pietra sopra è arrivata a Phila dopo che due corse immense di Baltimore avevano archiviato l’ultima uscita di sempre al Texas Stadium; due corse che hanno evidenziato impaccio, crisi e debolezze di una squadra intera. I Cowboys sono fuori, i favoriti per il titolo vanno a casa a testa bassa, o ballando, come si dice in giro, e tra tutte le teste che cadono rimane su quella di Wade Phillips, forse davvero incapace di gestire cotanto materiale prezioso. Ma certi crolli, se non nascono tra le mura amiche, nascono per incapacità di gestione.

Le deluse però non abitano solo in Texas. Pensiamo ai Chicago Bears, che nonostante la vittoria di Minnesota si era vista recapitare in dono le sconfitte di Tampa (con Oakland) e, appunto, di Dallas. La squadra di Lovie Smith ha perso però a Houston permettendo ai Texans di chiudere la seconda stagione positiva consecutiva (sempre 8-8); il prossimo anno si aspetta il salto di qualità degli uomini di coach Kubiak. Non ride Tampa Bay, come detto sconfitta dai Raiders, che in un mese getta via una stagione apparsa per lunghi tratti perfetta. Prima del MNF perso contro Carolina, i Buccaneers erano 9-3 in classifica. Perso quello sono cominciati gli incubi, le paure, qualcosa si è rotto nell’armonia della squadra e sono arrivate 4 sconfitte di fila.

In Afc siamo stati buoni profeti. Tempo fa, quando tutti aspiravano ad un Super Bowl tutto newyorkese dicemmo che nella Afc East, forse sarebbe stato il terzo a godere tra i due litiganti. I Miami Dolphins nell’incredibile rincorsa sono riusciti a piazzare il sorpasso finale. Di questo 2008 nella Afc East rimarranno molte cose, dall’avvio super dei Buffalo Bills che si perdono poi per strada al fallimento dei NY Jets di Eric Mangini anch’essi vicini all’impresa, esaltati al massimo dovo la vittoria su Tennessee e precipitati nel finale con un crollo imbarazzante.

Certo a vedere quante squadre hanno avuto problemi di tenuta nel finale viene da chiedersi se l’idea di aggiungere gare di regular season renderebbe davvero più divertente il campionato. Al di là dell’aumento del rischio infortuni, sembra ormai evidente che anche fisicamente troppi giocatori arrivino con la spia della riserva accesa dopo 16 partite.

La Afc East, dicevamo, vinta da Miami ma pronta a elogiare i Patriots. Gli uomini di coach Sparano (nostro personalissimo allenatore dell’anno) vincono una sfida a tre che, a inizio anno, si presumeva non li tenesse nemmeno in considerazione. La festa più grande è per Chad Pennington, tagliato da New York dopo l’arrivo di Favre e capace di vendicarsi battendo il rivale sul campo e portando la sua squadra ai playoff mentre Mr. Brett resterà a guardare. Scherzi del destino forse, stagioni che nascono e finiscono in modo bizzarro.

Non c’è niente di bizzarro invece nella stagione dei Patriots. C’è solo genialità, quella di Bill Belichick. Bistrattato e odiato da tanti, sottovalutato da chi si era messo in testa che solo grazie agli aventi scatenanti dello spygate fosse riuscito a fare quello che ha fatto, un allenatore nornale che si era trovato una marea di campioni perché, la sua precdente esperienza da head coach era lì a dimostrare, secondo alcuni, quanto fosse mediocre.

E invece no. La gente si dimentica alla svelta, la storia non viene mai riscritta correttamente perché ognuno porta con sé l’episodio che più lo colpisce, quello che poi si fossilizza nella sua testa come prova inopinabile di quanto gli eventi siano stati falsati. Episodi ce ne sono stati tanti, anche discutibili, ma negare quanto fatto con una squadra che sei anni fa era composta quasi esclusivamente da semi-sconosciuti professionisti ha dell’assurdo. Belichick ha implementato negli anni un sistema di gioco perfetto, ha valorizzato atleti, ha inserito i tasselli giusti per coprire i buchi del puzzle. Ha costruito l’unica squadra in grado di vincere 16 partite di regular season, ha giocato 4 Super Bowl, 3 li ha vinti uno gli è sfuggito nel finale per via di una magia, di un miracolo, degli dei del football direbbe qualcuno, che invidiosi della perfezione umana hanno dato a David Tyree, per una volta nella vita, i famosi 15 minuti di celebrità. Furono in realtà 15 secondi, forse meno, ma una intera stagione, una intera storia del gioco girò lì, su un pallone sparato in avanti più per disperazione che per convinzione, dove Eli Manning aveva visto in una casacca del proprio colore un’ancora di salvezza.

Il 2008 doveva essere l’anno più duro dei Patriots, vittime di una botta morale inguaribile, vittime di un ricambio generazionale in alcuni ruoli, senza certezze per l’immediato e con Tom Brady, il vero grande uomo delle vittorie di BB, che si frantumava una gamba alla prima uscita stagionale. Belichick non ci ha pensato un secondo, ha buttato nella mischia Matt Cassell, uno che l’ultima volta era stato titolare quando non aveva ancora dato gli esami di maturità. Lo ha messo lì, dietro al centro a raccogliere snap e, tra alti e bassi, ha costruito il suo piccolo capolavoro incompiuto. A un passo dai playoff quando era dato per morto, 11-5 finale con eliminazione causata dal solo “tie-breaker”, 4 vittorie di fila a dicembre per inseguire il sogno. C’ da tremare. Da quando vinsero il loro primo Super Bowl nel 2001, i Pats hanno saltato solo due volte la post season: nel 2002 con un record di 9-7 e quest’anno. Due record vincenti inutili. Ma dopo quel 2002 vinsero due titoli. Attenzione quindi.

Ovviamente ci sarebbe da parlare in eterno di questo 2008, ma visto che siamo in vena di allenatori è giusto celebrare Mike Shanahan, quarta illustre vittima delle panchine che stanno saltando a stagione conclusa. Shanny arrivò in Colorado, destinazione Denver Broncos, quando aveva 43 anni; se ne va che ne ha 56. Prima dei Broncos era stato a Los Angeles, dai Raiders, aveva chiuso 7-9 il primo anno e iniziò 1-3 quello dopo. Il vulcanico Al Davis gli preferì Art Shell già a ottobre. Era il 1989. Tornò come capo allenatore nel 1995 in quei Broncos che avevano sprecato già 3 Super Bowl, la squadra di un John Elway perennemente incompleto nel suo plamares. Scelse lo staff giusto, Denver implementò una linea offensiva che giocava la tecnica denominata zone-blocking e si fece recapitare via draft il runningback Terrell Davis al sesto giro. Era il sesto HB al training camp di quell’anno, Shanahan lo tenne con se dopo averlo osservato e studiato a lungo. Iniziarono con un 8-8, poi persero 9 partite in tre anni e vinsero due Super Bowl. Elway si ritirò da campionissimo, i Broncos rimasero per anni una squadra più che competitiva. Dal 2003 al 2005 andarono sempre in doppia cifra in fatto di vittorie stagionali e chiusero 13-3 nell’ultima di quel triennio. Furono loro i primi a battere i Patriots di Brady in una gara di Playoff, quei Patriots con già tre anelli al dito.

Dal 2006 non si è più tornati a quei livelli e dopo tre stagioni di galleggiamento si è deciso di fare una rivoluzione. Giustamente, per carità, ma questo è l’ultimo blocco tolto da quella magnifica storia di cui Mike Shanahan fu regista, la storia che portò Elway a concludere la carriera stravolgendo in toto l’esito di una vita sportiva, di una battaglia che durava dai tempi di The Play, al college di Stanford, quando la sua nomea di perdente, giusta o sbagliata che fosse, aveva cominciato a prendere forma nonostante i suoi numeri. Erano serviti un gran runningback ed un intelligentissimo allenatore per spingere John Elway sull’Olimpo.

Olimpo che non vivranno mai i Detroit Lions, prima squadra a tracciare un netto 0-16 nella storia della Nfl. Viene da pensare che non sia giusto, nonostante la mediocrità del roster, vedere una formazione chiudere così, ma non c’ stato verso di cavare una vittoria dal buco. Alcune sfiorate, un paio di gare perse subendo la rimonta avversaria, contro Minnesota addirittura negli ultimi secondi. Cinque diversi quarterback schierati sono bastati al solo Calvin Johnson per dimostrare le proprie immense capacità, ma il bandolo della matassa era ben lontano dall’essere trovato. Tampa Bay negli anni 70 fece la stessa fine con due gare in meno. Altre squadra si sono salvate per miracolo, in ultimo proprio i Miami Dolphins, un anno fa, quando sconfissero Baltimore in over time raggranellando l’unica vittoria del 2007. Detroit ripartirà ovviamente da un nuovo coach, ma anche da un nuovo GM visto il licenziamento di Matt Millen avvenuto a metà stagione. Licenziamento tardivo per un general manager da anni accusato da tutti, incapace di gestire la squadra, il mercato, di costruire un progetto, di scegliere a un draft. Il fallimento Joey Harrington, i tre WR scelti in quattro anni, quel Gosder Cherilus che in molti considerano già il peggiore lineman offensivo della pur ampia scelta dell’aprile scorso. Un disastro da cui non si può far altro che ripartire.

Le ultime due righe di questo 2008 sarebbero per i San Diego Chargers che arrivano ai playoff con 8-8 ma nonostante questo fanno paura e sono piuttosto caldi. O per i rookie, in particolare Joe Flacco e Matt Ryan, con quest’ultimo già eletto giocatore offensivo dell’anno dopo aver concluso una stagione che nemmeno ai vari Dan Marino e Peyton Manning era capitata.

Invece ci lasciamo alle spalle due grandi nomi: Drew Brees ed Isaac Bruce. Il primo starà fuori dai playoff per il secondo anno di fila, ma per la terza stagione consecutiva ha superato le 4000 yard su lancio. Per la prima volta, la seconda in tutta la storia di questa Lega è arrivato anche a quota 5000: 5069 per l’esattezza, 16 in meno del record che Dan Marino stabilì nel 1984. Sedici yard morte sull’ultimo incompleto per Lance Moore, una goccia d’acqua dopo aver nuotato per tutto l’oceano. Ci riproverà, Brees, con un occhio più verso gli obiettivi di squadra che quelli dei record.

Isaac Bruce, una vita ai Rams poi, a 36 anni, il passaggio ai rivali di San Francisco. Nello scontro con la sua ex squadra, vinto dai 49ers, Bruce ha toccato quota 1000 ricezioni in carriera, quinto giocatore di sempre. Ma, soprattutto, l’ex WR del Greatest show on turf di Saint Louis, ha raggiunto quota 14944 yard in carriera, superando così il grande Tim Brown e divenendo il secondo migliore di sempre in questa graduatoria. Un altra stagione, un paio di palloni giusti, e potrebbe divenire il secondo uomo a raggiungere e superare le 15000. Poi basta, davanti a lui la cima più irraggiungibile, più alta di quella che Brees tenta di scalare per toccare Marino. Davanti, sopra gli altri grandi che inseguono, un solo uomo, quello che prendeva qualsiasi tipo di palla al mondo potesse essere lanciata. Là davanti l’uomo che più di tutti è significato San Francisco 49ers su un campo da gioco insieme a Joe Montana e Steve Young. Là davanti ci sono le 22985 yard ricevute da Jerry Rice.

Buon anno a tutti i lettori.