Lenny Moore

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Guardando il vecchio filmato in bianco e nero, il gioco inizia come un’altra sweep a sinistra.
C’è l’attacco che si prepara, ed i ferri di cavallo sui caschi dei giocatori, che li identificano immediatamente come i Baltimore Colts.
C’è il familiare numero 19, Johnny Unitas, che riceve palla dal centro e si gira, cedendola a Lenny Moore. E c’è quest’ultimo che riceve l’handoff appena al di là delle proprie 20 yards, spostandosi rapidamente dietro la linea mentre la difesa reagisce tardivamente.
All’improvviso, non è più solo un’altra sweep, dato che in men che non si dica Moore è in campo aperto.
Chiaramente l’uomo più veloce in campo, Moore va sulla sideline con ancora più spazio davanti a sè.
Non c’è il sonoro ad accompagnare le immagini, ma la leggenda narra che il boato di 60.000 spettatori sta riempiendo il Memorial Stadium.
In profondità in territorio nemico, Moore è costretto a tornare verso l’interno, e pare che la sua bella corsa stia per terminare. Ma si vede Lenny evitare con destrezza diversi placcaggi e romperne un altro tagliando all’interno, poi un ultimo scatto e poi di nuovo all’interno, per liberarsi e varcare la goal line.
È stata la giocata più importante e forse la più grande nella storia dei Baltimore Colts fino a quel momento.
La galoppata vincente da 73 yards di Moore giunse nell’ultimo quarto della finale della Western Conference contro i 49ers a Baltimore, il 30 Novembre 1958.
Desiderosi di conquistare il loro primo titolo di Conference, e con lo spettro del pauroso crollo nelle ultime due gare della precedente stagione che ancora aleggiava su di loro, i Colts giocarono malissimo nel primo tempo.
Si trovarono infatti sotto per 27-7: certi pensieri sconfortanti circa la possibile perdita del primato (come avvenuto l’anno prima) passarono sicuramente per la mente di molti spettatori, e forse anche nello spogliatoio di Baltimore.
La corsa di Moore rimise i Colts in partita, ed anzi li portò in vantaggio sul 28-27, in una gara che avrebbero vinto di lì a poco.
Quando giunse la fine dell’incontro, il Memorial Stadium esplose in festeggiamenti selvaggi, mai visti prima in uno stadio di football.
I giocatori dei Colts vennero presi d’assalto dai tifosi, che già avevano iniziato ad avvicinarsi alle sidelines verso la fine dell’incontro, e Moore, tra gli altri, venne portato fuori dal campo in trionfo. Non fu solo un grande momento per i Colts, ma uno dei più grandi nella storia del football.

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In azione contro i Rams

La carriera di Moore è piena di grandi corse e vittorie elettrizzanti.
Soprannominato “Spats” per il modo in cui avvolgeva il tape bianco intorno alle sue scarpe da football, fece il suo ingresso nella NFL nel 1956, dopo una carriera straordinaria all’Università di Penn State, affermandosi immediatamente come una minaccia imprendibile e vincendo il premio di Rookie of the Year.
Moore fece parte di quei Colts che furono capaci di confermarsi per due volte consecutive Campioni del Mondo (1958-1959), e perennemente in lotta per il titolo fino alla sua ultima stagione tra i pro, nel 1967.
Fu uno dei più pericolosi giocatori d’attacco di sempre, uno dei pochi ad essere in grado di piazzare una corsa lunghissima come di ricevere un passaggio in profondità.
I Colts lo utilizzarono sia fuori dal backfield che come flanker, e nel corso della sua carriera fu una minaccia costante, in grado di mettere grandissima pressione sulle difese avversarie, risultando un eccellente complemento a compagni del calibro di Johnny Unitas, Alan Ameche, Raymond Berry, Jim Mutscheller, John Mackey e Jimmy Orr.
Dato che non veniva impiegato come “cavallo da tiro” (raggiunse infatti le 100 portate in sole 3 delle 12 stagioni giocate), Moore non fu mai in lotta per il titolo di miglior runner della Lega.
La sua miglior annata nel gioco su terra fu quella del 1961, quando conquistò 648 yards.
Nonostante ciò, va rilevato che in 4 diverse stagioni fu il miglior giocatore NFL quanto a yards per portata, per 3 volte con una media superiore a 7.0. E pur venendo utilizzato fuori dal backfield per la maggior parte del tempo, Moore fu tra i migliori ricevitori nelle 5 stagioni tra il 1957 ed il 1961; stesso dicasi quanto a yards totali dalla linea di scrimmage in quelle stesse stagioni, e ripetendosi poi nel 1964. Le sue 1.175 yards dalla linea di scrimmage nel 1957 lo collocarono al vertice della NFL, e risultò secondo solo a Jim Brown nel 1958, allorquando raggiunse il primato personale di 1.536 yards.

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In corsa contro i Browns

Nel suo libro “Fatso”, l’Hall of Famer dei Colts Art Donovan, definì Moore come “un piccoletto magrolino che sapeva correre, ricevere e bloccare con la stessa identica ferocia”.
Le migliori stagioni di Moore come ricevitore furono quelle del 1958 (nella quale chiuse al secondo posto nella Lega con 50 ricezioni per 938 yards) e quella del 1960 (terminata al terzo posto, con 45 ricezioni per 936 yards). Quelle cifre totali equivalgono ad un’odierna stagione da 1.250 yards con 16 partite in calendario.
Moore fu anche stabilmente tra i migliori giocatori della Lega quanto a yards per ricezione nei suoi anni d’oro, con oltre 20 yards a ricezione nel 1960 e nel 1964. Negli anni tra il 1957 ed il 1960, ebbe una media di 18.7 yards a ricezione e 16.6 di media in carriera, cifre che sono certamente le più impressionati per Moore, tra i pochi a ricevere così tanto fuori dal backfield.
Nonostante la bassa media di 7.5 portate a partita in carriera, Moore corse per 5.174 yards, il che lo collocò al nono posto nella classifica di ogni tempo al momento del ritiro.
E nonostante quel record sia stato infranto da molti negli anni a venire, le sue 4.84 yards a portata in carriera lo pongono tra i primi dieci in assoluto.
Moore fu altresì tra i migliori di sempre ad entrare in endzone.
Berry, a lungo suo compagno di squadra, lo ricordava come “probabilmente la miglior arma offensiva – arma da punti – che io abbia mai visto”.
Fu il primo giocatore nella storia a segnare 20 TDs in una sola stagione (1964), e ne totalizzò ben 113 in carriera.
Ebbe una media di un TD a partita nelle cinque stagioni tra il 1957 ed il 1961, ed è ancora nei libri dei record per aver segnato almeno un TD in più incontri consecutivi (18) di chiunque altro.
La sua media in carriera di un TD per ogni 6.2 ricezioni lo colloca tra i migliori di ogni tempo, ed è all’ottavo posto di sempre quanto a TD per partite giocate a .790.
Forse la statistica più ragguardevole è quella che lo pone apparentemente al primo posto (nonostante non ci sia una classifica ufficiale): un TD su corsa per ogni 16.95 portate, incluso un incredibile TD per ogni 10 corse nel 1964.
Quella statistica di Moore è migliore di quelle di grandi runningbacks, quali Jim Brown (22.25), Gale Sayers (25.41), Walter Payton (34.89), O.J. Simpson (39.41).
Solo Paul Hornung (17.86) e Steve Van Buren (19.13) sono vicini a lui.

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Un handoff ricevuto da Unitas

Molti dei TDs di Moore furono drammatici, e giunsero in momenti cruciali per i Colts.
La corsa da 73 yards nel 1958 contro San Francisco avrebbe potuto essere la sua più grande giocata, ma ve ne furono molte altre nelle sue 12 stagioni che fecero la differenza tra vittoria e sconfitta.
Nell’anno da rookie, il 1956, Moore si produsse in lunghissime corse vincenti nell’ultimo quarto in due partite consecutive, vinte rispettivamente contro i Packers ed i Browns.
Nell’arco di due settimane, verso la fine della stagione 1960, con i Colts alla ricerca del terzo titolo consecutivo, Moore ricevette dei TD passes allo scadere delle gare contro i Bears ed i Lions.
La ricezione contro Chicago, da 39 yards, fu decisiva, e venne effettuata in situazione di 4° e 14 con ancora 19” sul cronometro: con quella vittoria, i Colts rimasero in vetta alla Western Conference.
La presa da 38 yards contro Dick “Night Train” Lane ed i Lions a 14” dal termine fu una delle più grandi ricezioni di ogni tempo, realmente incredibile; Moore ne parlò in termini quasi sovrannaturali in un’intervista resa anni dopo. Altrettanto incredibilmente, i Lions vinsero l’incontro all’ultimo gioco grazie ad un TD pass da 65 yards, assestando un colpo mortale alla stagione dei Colt).
In una gara molto critica contro i Packers, nella stagione che vide i Colts vincere il titolo di Conference (1964), Moore segnò con ancora 1’ da giocare, dando la vittoria ai suoi per 24-21.
Inoltre, ricevette un TD pass da 59 yards nella finalissima del 1958 contro i Giants.
Per 5 volte, Moore venne selezionato nel team All-Pro della NFL. Disputò 7 Pro Bowls e venne nominato Comeback Player of the Year al termine della straordinaria stagione 1964, dopo aver giocato solo 7 partite l’anno precedente a causa di infortuni.
Quel titolo fu particolarmente dolce per Moore, dato che l’allora coach di Baltimore, Don Shula, aveva tentato di cederlo alla fine della stagione 1963, senza riscontrare alcun interesse.
Moore venne anche nominato Player of the Year da un’agenzia di stampa in quell’anno, e ricevette il Jim Thorpe Trophy come MVP in seguito al voto dei colleghi giocatori.
Fu uno dei 6 runningbacks votato per il team NFL degli anni ’50, ed introdotto nella Pro Football Hall of Fame nel 1975, grazie a queste eccellenti statistiche:

– 12 stagioni NFL;
– 143 partite disputate;
– 1.068 portate;
– 5.174 yards su corsa;
– 4.8 yards di media a portata;
– 63 TDs su corsa;
– 363 ricezioni;
– 6.039 yards su ricezione;
– 16.6 yards di media a ricezione;
– 48 TDs su ricezione;
– 678 punti segnati;
– 41 fumbles commessi
.

Il ruolo di Moore nella celeberrima finalissima NFL del 1958 è stato in qualche modo oscurato dai risultati di alcuni suoi compagni di squadra in quell’incontro.
Mentre Unitas, Berry ed Ameche sono i giocatori di Baltimore dei quali si parla più spesso in occasione della vittoria in overtime per 23-17 sui Giants, anche Moore disputò una grande partita. Ricevette 6 passaggi per 101 yards, uno dei quali, da 11 yards, giunse in situazione di 3° e 10, con i Colts alle corde e schiacciati nella loro metà campo all’inizio del drive del pareggio, che giunse allo scadere dei tempi regolamentari.
Più di qualunque altra statistica, ad impressionare fu la paura instillata da Moore nella difesa dei Giants quel giorno: un terrore così grande che il RB venne raddoppiato per quasi tutto l’incontro.
Il CB Lindon Crow non riuscì a contenere Moore nell’uno contro uno, ed in un gioco Moore andò molto vicino a portare in vantaggio i suoi all’inizio dell’ultimo quarto.
Con i Giants avanti per 17-14, Moore scivolò dietro la secondaria di New York e ricevette un lungo passaggio di Unitas vicino alla goal line, ma di pochissimo fuori dal campo.
La minaccia di simili giocate per Moore è in parte ciò che diede a Berry, schierato dall’altro lato del campo, lo spazio per muoversi.
I Giants non riuscirono in alcun modo a raddoppiare su Moore e Berry, e Unitas fu in grado di trovare il punto debole della difesa avversaria nei momenti cruciali della partita.
Berry chiuse la gara con il record di 12 ricezioni per 178 yards, alcune delle quali decisive nei drives del pareggio e della vittoria.
Infine, Moore effettuò un bloccaggio fuori dal backfield, che spianò la strada alla corsa vincente di Ameche.

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Il blocco decisivo di Lenny (a sx) per Ameche

Al di là dei numeri, di una singola giocata o di un singolo incontro, a colpire era la vera e propria maestria di Moore nel liberarsi per un ampio guadagno.
Il DB di Baltimore Carl Taseff lo ricordava così: “Tutte le volte che qualcuno gli si avvicinava, sapeva dove tagliare. Ed era fluido. Era come una sinfonia sul campo da football”.
Che si trattasse di ricevere una bomba sul profondo, di convertire una ricezione sul corto in un ampio guadano o di liberarsi per correre, Moore era uno di quei rari giocatori capaci di mettere a segno un big play in ogni parte del campo.
In campo aperto, si muoveva con la grazia e la bellezza solitamente riconosciute a giocatori come Hugh McElhenny, Gale Sayers, Barry Sanders e pochi altri, un pugno di grandi runners in grado di mandare costantemente fuori tempo i difensori, forti abbastanza da rompere placcaggi e veloci a sufficienza da sfuggire a chiunque.
Pur essendosi preso una grossa rivincita nel 1964 (anno nel quale i Colts tornarono in finale), Moore non era soddisfatto del suo rapporto con la formazione di Baltimore. Disse in seguito che Shula si era impegnato a farlo giocare costantemente come ricevitore, senza poi mantenere la parola.
Dato che i Colts avevano Berry, Orr e Mackey, non è chiaro come ciò avrebbe potuto essere fatto se non con una formazione con 3 WR ed un solo back, ma Moore era convinto che la sua carriera avrebbe potuto essere più lunga e produttiva se avesse giocato esclusivamente fuori dal backfield a quel punto del suo percorso professionale.
Sentiva che il correre e bloccare (cosa che aveva fatto per 9 stagioni fino a quel momento) non fosse il modo migliore di impiegare le sue capacità.
Curiosamente, lo stesso conflitto ebbe luogo qualche anno dopo a sole 40 miglia di distanza, in quel di Washington, allorquando il coach Otto Graham spostò Bobby Mitchell nel backfield, nonostante questi fosse stato nominato All-Pro diverse volte come WR. Mitchell tenne duro come Moore, e Graham panchinò il futuro Hall of Famer per aver suggerito che la mossa non fosse la migliore per impiegare le sue doti.
Moore aveva ragione, quantomeno per il fatto che la sua produttività nell’ultimo terzo di carriera scese, infuriandosi poi con Shula per averlo estromesso dai piani dei Colts ed averlo sostanzialmente costretto al ritiro dopo la stagione 1967.

Il conflitto con Shula e l’amarezza che esso provocò in Moore tocca un’altra parte della storia di questo atleta, al di là della gloria sui campi di football.
È una storia triste, di rabbia e di promesse non mantenute, di pregiudizio e di opportunità economiche che i giocatori bianchi dei Colts davano per scontate, ma che invece a Moore erano precluse.
Parte della leggenda dei Colts sta nel rapporto di affetto esistente tra i giocatori ed i cittadini di Baltimore. I tifosi preparavano torte di compleanno e confezionavano maglioni per i giocatori, vivevano vicino a loro ed andavano in chiesa con molti di essi. Diversi giocatori che venivano da parti molto lontane del Paese si stabilirono poi in città, ed ebbero successo negli affari.
Al contempo, i giocatori di colore vivevano in un mondo a parte, limitati negli ambienti da frequentare e tagliati fuori da molte opportunità. Questo era vero persino per giocatori famosi come Moore, e questa fu un’esperienza che non dimenticò mai.
Nel suo splendido libro del 1994 intitolato “When the Colts Belonged to Baltimore”, il giornalista sportivo William Gildea raccontò l’amata comunità di Baltimore ed i suoi Colts, mentre vi cresceva negli anni ‘50. Messo di fronte all’esperienza di Lenny Moore, comunque, esaminò la dolorosa realtà della segregazione e del razzismo, anch’essa parte non solo di quella città ma di tutti gli Stati Uniti. “Da un lato della linea colorata, la vita era quasi idilliaca”, scrisse Gildea. I bianchi a Baltimora “non attraversavano quella linea, nemmeno gli passava per la testa, e non sapevano quale dolore si provasse dall’altra parte”.
Moore lo sapeva, lo provava, e ne risentiva.
Mentre i compagni bianchi erano capaci di sentire l’amore di una città praticamente ogni giorno, Moore si trovava ad essere confinato nei quartieri neri.
Non potevi andare al cinema in centro”, disse a Gildea. “Avresti dovuto rilassarti, pensare ad una partita, prepararti, e invece dovevi portarti addosso quel peso”.
Non era un’esperienza completamente nuova per Moore. Era nato povero e nero a Reading, Pennsylvania, in una grande famiglia nell’anno peggiore della Grande Depressione.
Il padre lavorava in un’acciaieria, ed arrotondava la paga facendo delle riparazioni, mentre la madre lavorava come domestica. Fu il primo della sua famiglia ad andare al college, e l’unico dei suoi 11 fratelli a farlo. Fu una stella a Penn State, ma provò sulla pelle anche l’isolamento derivante dal ritrovarsi in un mondo dominato dai bianchi, oltre all’ipocrisia di essere al contempo un grande atleta ed un cittadino di serie B.

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Un giovanissimo Moore ai tempi di Penn State

Ciò che strideva maggiormente per Moore nell’essere ai Colts era la perdurante coesistenza di quel misto di pregiudizio e adulazione, ad un livello ancor più alto da quando giocava in NFL. Migliaia di tifosi andavano in visibilio per i suoi exploit sul campo, ma ancora si trovava ad affrontare le limitazioni imposte dal razzismo.
Dave Klein, autore di “The Game of Their Lives”, altro libro che merita di essere letto, relativo alla finalissima del 1958 e ad alcuni dei suoi protagonisti, così riporta una conversazione con Moore: “Una stella ed un negro. Non riuscivano a gestirlo. Si trovavano tra due fuochi: da un lato, mi odiavano perché ero nero, e dall’altro avevano bisogno di me per i trip del loro ego”.
Quel tipo di clima ebbe un impatto anche sul campo.
La situazione ha probabilmente influito su ciò che avrei potuto essere. Forse avrei potuto diventare un giocatore migliore. Perché ti condizionava al punto che a volte finivi con l’essere lunatico, e faceva male… Se avessi potuto giocare a football senza questa pressione e questa tensione costante, sarebbe stato una vera gioia per me”.

In un certo qual modo, le cose divennero più difficili per Moore dopo il suo ritiro.
Non solo dovette misurarsi con una grande carriera finita a 34 anni, ma con uno sforzo ancora più grande nel costruirsene una nuova. Nel 1968 lavorò per la CBS-TV, divenendo il primo analista di colore degli incontri NFL, ma non venne confermato per la stagione successiva. Per i 7 lunghi anni successivi, Moore tirò a campare fino a quando i Colts lo assunsero come direttore dei rapporti con la comunità nel 1975. Il lavoro gli piaceva, e sembrava aver trovato il modo di mettere radici più profonde a Baltimore, cominciando a conoscere la gente della città come non era mai riuscito a fare prima, negli anni in cui vi aveva giocato: ma il lavoro gli venne tolto poco dopo il trasferimento della franchigia ad Indianapolis.
Ancora irrisolti erano i sentimenti su quello che avrebbe potuto essere con i suoi vecchi compagni. Ad un raduno di ex Colts in un ristorante di proprietà del grande difensore Bill Pellington, Moore provò la forte delusione di non essere stato in grado di conoscere alcuno dei giocatori bianchi, di non essere riuscito ad entrare nel loro mondo e di forgiare amicizie più profonde.
I suoi commenti incontrarono un silenzio scomodo. Solo Ameche e Berry, in precedenza, avevano espresso rammarico per gli ostacoli che Moore ed altri atleti di colore si erano trovati a dover fronteggiare, e per il dolore che la segregazione aveva loro arrecato come compagni di squadra ed esseri umani.
Alla fine, Moore venne assunto dallo Stato del Maryland, occupandosi di prevenire l’abuso di droga dei giovani. Quel lavoro gli consentì di raggiungere una certa pace, sia con se stesso che con alcuni dei suoi ex compagni.

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Un’immagine recente di Lenny

Aiutare uno di questi ragazzi è la cosa più importante che potessi fare”, disse a Gildea. “La maggior parte di loro non ha mai avuto nessuno che gli dicesse che sono amati, ed abbracciarli è la cosa più bella, perché in molti casi nessuno l’ha mai fatto”.
Art Donovan e Jim Mutscheller sono stati tra le persone più importanti sulle quali Moore potesse contare, per incontrare e parlare ai ragazzi con i quali lavorava.
L’intero processo che ho imparato negli ultimi anni consiste nel dare. E’ la cosa più importante, è tutto, indipendentemente da qualunque cosa io decida di fare. È appagante, è la vita. Cosa posso fare per aiutarti?

Fonte: http://www.profootballresearchers.org/Coffin_Corner/24-05-957.pdf

Autore: Andy Piascik

Originariamente pubblicato su “The Coffin Corner

Il sopra riportato testo costituisce una traduzione dell’elaborato originale, i cui diritti di proprietà intellettuale ed economica spettano al relativo Autore.