Dallas Cowboys 2014: What about these ‘boys?

Quando mi è stato chiesto di commentare la stagione dei “miei” Cowboys confesso di aver avuto una sorta di timore reverenziale: sono un vecchio tifoso della Lone Star, uno che ha negli occhi Roger Staubach e la Doomsday Defense, Deion Sanders e The Triplet, uno che ha vissuto anni di assoluta esaltazione e di delusione e disperazione profonda.

Inoltre, oramai c’è in giro tantissima gente molto più tecnica ed appassionata di me che discute di salary cap, di scelte di draft e che esamina con estrema perizia e competenza filmati spiegando con assoluta proprietà il perché ed il percome di ogni azione.

Io sono sempre stato un “curvarolo”, uno che si riempie gli occhi con le divise, le giocate ed i colpi di bravura dei suoi beniamini; uno del football di una volta, in cui ogni azione è una storia a sé stante e poi via si riparte e speriamo vada meglio.

Capirete dunque perché la mia analisi sarà un fatto di cuore, e spero riuscirete a perdonare qualche eccessivo entusiasmo nelle mie parole.

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Un’annata quella del 2014 iniziata – contrariamente ad altre – con mugugni e disfattismo diffuso: pronostici fallimentari e ironiche allusioni alla possibilità di avere la prima scelta nel draft 2015 da parte dell’ambiente. Ricordo distintamente qualcuno azzardare un 3-13 finale, e dileggiare chi aveva osato pronosticare il 12-4 che poi la squadra ha raggiunto. Retaggio del modo tutto pallonaro che noi italiani abbiamo di avvicinarci allo sport: se non compri Messi o Ibrahimovic non puoi vincere nulla, figuriamoci una squadra che al draft passa sopra Johnny Football e che sceglie una linea offensiva al primo giro per poi perdersi a prendere giocatori in ruoli del tutto “secondari”. Invece quello del 2014 è stato il draft del grande completamento della linea d’attacco, uno dei reparti misconosciuti di una squadra ma nondimeno uno dei più importanti: Jason Garrett ha creato in due anni una linea giovane e forte in cui – a parte Doug Free, veterano di otto stagioni – tre su cinque sono giocatori con due anni di esperienza e che quindi possono garantire ai Cowboys un lungo periodo di tranquillità nel reparto.

I risultati non sono tardati: dopo un disastroso avvio contro i 49ers (che ha fatto stracciare le vesti alle Cassandre di turno) la squadra ha preso fiducia, consapevolezza del suo potenziale ed è decollata per fermarsi soltanto a novembre, in quella pausa fisiologica che è naturale in tutte le squadre nell’arco di un campionato duro e dispendioso come quello NFL.

Tony Romo ha mostrato le qualità da leader che nessuno gli aveva mai riconosciuto, giocando in condizioni fisiche anche deprecabili, mangiandosi palloni che in passato avrebbe sparato in aria a caso, mostrando insomma una raggiunta maturità che ha consegnato alla squadra un autentico quarterback vincente: e se non ci fosse stata quella maledetta chiamata della “Calvin Johnson Rule” nel Divisional, chi scrive è convinto che sarebbe stata raccontata tutta un’altra storia circa questa stagione.

Si, perché non solo Romo e la linea di attacco è stata degna di un Superbowl, o quantomeno del titolo NFC, ma sorvolando sui nomi ovvi di DeMarco Murray e Dez Bryant (il quale, visto dal vivo, è semplicemente impressionante: trasmette una sensazione di potenza fisica che lo fa paragonare ad un’autentica macchina da guerra!), ci sono stati i Clutts, i Williams, gli Escobar, i Beasley, i Parnell, gli Harris: in una sola parola, la profondità del roster. Se proprio una critica dobbiamo muovere, riguarda la scelta del backup di Romo: Weeden – una volta chiamato in causa – si è dimostrato scarsamente consistente, costando alla squadra un paio di partite che avrebbero potuto fare la differenza nella fase cruciale della stagione, i playoffs.

E poi, la difesa!

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Sapientemente orchestrata da quell’autentico guru che è Rod Marinelli, seppure orfana del suo giocatore di maggior classe come Sean Lee, è riuscita a tenere il campo magistralmente e ad invertire quella tendenza vista nelle stagioni precedenti, dove tutto quello che creava l’attacco in termini di punti veniva vanificato da quello che subiva la difesa. Soprattutto contro le corse si è visto un miglioramento esponenziale: 1650 yard concesse agli avversari in tutta la stagione, significano poco più di 100 yard a partita! Gli attacchi avversari sono riusciti, in media, a malapena a risalire il campo una sola volta in tutta la gara con tutti i loro runningbacks. Se a ciò si aggiungono i 30 sack e i 18 intercetti, si riesce a comprendere quanto sia cambiata la musica in difesa rispetto alle stagioni precedenti. E tutto ciò va a merito di una pattuglia di giocatori che godeva di pochissimo credito ad inizio stagione: se qualcuno avesse nominato Selvin, McClain, Hitchens, Mincey, Melton, Crawford, oppure Patmon o Spillman molti avrebbero storto la bocca. Invece anche qui la parola magica è stata profondità, e gruppo. Una difesa di buoni giocatori dotata di un’ottima organizzazione è stata una dei segreti di quest’annata vincente dei Cowboys.

Infine un cenno doveroso al coaching staff.

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In passato era stato tacciato di inefficienza, scarso coraggio, poca fantasia. Più realisticamente, Jason Garrett e i suoi collaboratori sapevano bene di avere tra le mani un meccanismo incompleto, e questo probabilmente suggeriva loro un atteggiamento conservativo, una sorta di strategia per limitare i danni. Anche in questo la musica, nella stagione appena conclusa, è cambiata. Abbiamo visto più volte giocare dei quarti down decisivi spesso anche con chiamate imprevedibili: basti pensare al quarto e due che ha deciso la stagione contro i Green Bay Packers. Contro una difesa concentrata su DeMarco Murray, Romo ha pescato in profondità Dez Bryant uno contro uno contro Shields; come è finita è ancora negli occhi e – purtroppo – nel cuore di noi tifosi, obbligati a lasciare una competizione in cui saremmo stati all’altezza dei finalisti di quest’anno. Ma se così è stato, grande merito va, oltre che ai giocatori, ai vari allenatori di reparto che hanno saputo inculcare nei loro atleti la mentalità e la convinzione necessaria a tenere il campo, a testa alta, anche contro squadre sulla carta molto più attrezzate: basti pensare a quante partite i Cowboys abbiano ribaltato o, meglio ancora, abbiano vinto con un colpo di reni finale dopo essere stati rimontati. Il ringraziamento di noi tifosi va a Garrett, ma non di meno a Linehan, Marinelli, Kiffin, Bisaccia, Lett, Wilson, Baker: li cito così, non tutti e in ordine sparso, ma di sicuro con gratitudine per la meravigliosa annata che ci hanno saputo donare.

Ora inizia la carestia per noi tifosi, ci sarà la parentesi del draft e poi attenderemo ansiosi agosto per le prime uscite. Molti dei nostri beniamini forse cambieranno casacca: il bello – e il brutto – dello sport americano è questo. Ma per chi, come me, ha negli occhi e nel cuore questi colori la speranza sarà solo una: quella di vedere di nuovo la Lone Star sul tetto del mondo.