The New Plantation
Prima di leggere l’articolo di Patrick Hruby apparso su Vice Sports , e che riprendo ampiamente qui sotto, ero fortemente convinto che gli studenti-atleti che contribuivano al business multimilionario dello sport collegiale americano non avessero ragione di pretendere pagamenti che andavano oltre il valore della loro borsa di studio ed il rimborso spese per “vivere” la loro avventura universitaria.
Da oggi questa convinzione è molto incrinata, partendo da alcune considerazioni fatte dai coniugi Robert e Amy McCormick, una coppia di professori della Michigan State University, che ogni mattina assistevano alla processione dei giocatori di football che si recavano agli allenamenti alle 5:30, tra cui Charles Rogers, selezionato poi con la seconda scelta assoluta da Detroit al Draft 2003, e dismesso due stagioni dopo, tradendo le aspettative riposte in lui come il nuovo Randy Moss e diventando il pradigma del bust. Prima di essere una delle peggiori chiaviche della storia del football professionistico però, era un ragazzo slungagnone che tutte le mattine arrivava al campo su una bici sgangherata pur essendo potenzialmente un giocatore da svariati milioni di dollari di contratto.
Robert McCormick faceva anche un’altra considerazione molto forte: i giocatori in uniforme, coperti dei colori verde e bianco di Michigan State, facevano intravedere di spalle solo la pelle delle gambe, quasi tutte gambe nere, mentre tutti gli altri, coach, direttori atletici, manager a vario titolo, erano per la quasi totalità bianchi
“E’ stato incredibile. Mi sono reso conto che tutte le persone che vengono pagate o quelle che si divertono sugli spalti a guardare le partite, erano bianche, e la stragrande maggioranza delle persone che giocavano e che rischiavano la loro salute era nera”. Amy McCormick ha rincarato la dose dicendo “Non posso dire che lo sport universitario sia così malvagio come un sistema in cui le persone vengono incarcerate e uccise, ma è un sistema di apartheid”.
Ormai sei anni fa, i due hanno sostenuto in un articolo che si tratta di una “servitù legale per il profitto e l’intrattenimento” dei bianchi.
Il punto che forse, da europei e profani di un sistema che comunque permette di creare interesse attorno allo sport dilettantistico in maniera massiccia, rispetto all’oblio che questo tipo di sport ha ad esempio qui in Italia, è che nelle dissertazioni dei McCormick si sottolinea come non c’è niente di intrinsecamente razzista nel dilettantismo in sé. E non c’è ragione di credere che i suoi difensori e sostenitori, tra cui il presidente della NCAA Mark Emmert, siano motivati da questioni razziali: il dilettantismo ha radici “neoclassiche” e non razzali, tutt’al più classiste, riprese dagli statunitensi e provenienti dall’Inghilterra dove erano state “nobilmente” recuperate dall’Antica Grecia. il fatto è che l’ellade poco aveva a che fare con tornei multimilionari e valanghe di atleti afroamericani provenienti da distretti sottoproletari, proiettati grazie a meriti sportivi in istituzioni che nominalmente hanno come primo obbiettivo l’istruzione e la formazione culturale, non beccare il canestro con la palla.
Chiaramente, lo sfruttamento economico dello sport universitario rimane neutrale in facciata. C’è divieto assoluto di remunerare o favorire economicamente a qualsiasi titolo gli studenti atleti, vengono sempre portati ad esempio situazioni in cui l’atleta viene punito persino se accetta biglietti aerei o se gli viene data in dotazione una macchina per arrivare al campo sportivo. Tuttavia nel diritto americano, vi è un concetto chiamato “impatto negativo” (adverse impact), in cui, in sostanza, alcune regole nominalmente neutre che hanno un impatto negativo ingiustificato su un particolare gruppo etnico o sociale, possono essere contestate come discriminatorie, vedi il celebre caso Griggs v. Duke Power Co.. Questo appare un concetto sotto cui possono ricadere anche le dinamiche dello sport universitario: le regole del dilettantismo limitano gli atleti, e solo gli atleti del campus, non musicisti del Campus o scrittori del campus, che possono trovare stratagemmi per prodursi un reddito di libero mercato, accettando tutto il denaro, i beni o i servizi che qualcun altro vuole dare loro per i loro specifici talenti, non stiamo parlando di fare il ragazzo delle consegne della pizzeria sotto casa.
Si scende quindi, giocoforza, nei numeri: negli sport di ricavo della Division I di football e di basket maschile, dove si concentra la maggior parte degli interessi dei fan e dei media, gli atleti neri sono sproporzionatamente in maggioranza: 58,3% dei giocatori di basket e il 47,1% dei giocatori di football 2014-15 erano neri, che li rende il più grande gruppo razziale in entrambi gli sport. Questi numeri diventano abnormi se si va a prendere una Conference del sud molto aggressiva a livello sportivo come la SEC (66,7% e 57,6%). Scendendo ad un livello inferiore, i McCormick riportano che nel 2010 l’82% dei top 250 dei giocatori senior di High School e l’88% dei top 150 di basket erano neri.
Tuttavia, secondo i dati anagrafici degli Stati Uniti al 2014, i neri costituiscono il 12,6% della popolazione totale del paese, che fa da contraltare ad uno studio della University of Center Pennsylvania che afferma come gli uomini afroamericani costituiscono solo il 2,5% del popolazione studentesca complessiva alle scuole delle cinque maggiori Division (SEC, Big Ten, ACC, Big XII, Pac-12). In altre parole, gli afro-americani non sono solo sovrarappresentati negli sport collegiali, ma rispetto alla loro presenza nelle strutture d’istruzione d’elite, sono mostruosamente sovrarappresentati.
Sempre che si parli di giocare, perchè la struttura di comando dello sport collegiale ha ovviamente altro colore: il capo della NCAA è sempre stato un uomo bianco, e nessuna delle cinque conference sopra dette ha mai avuto un commissioner non bianco. Nel 2015 uno studio dello University of Central Florida’s Institute for Diversity and Ethics in Sport ha determinato come nelle 128 scuole di FBS, le componenti bianche sono praticamente tutte oltre l’85% (vedi lo specchietto a lato)
Abbastanza inutile scendere invece nei dettagli dell’enorme flusso di denaro che chiunque con un po’ di interesse per gli sport collegiali, avverte nella copertura televisiva ed in generale dei mass media.
La NCAA incassa circa 700 milioni di dollari all’anno da CBS, Turner, e ESPN per i diritti di trasmissione dei playoff di basket (la cosiddetta March Madness), una somma che lieviterà probabilmente a 900 milioni annui dal 2019 al 2024. ESPN paga 7,3 miliardi di dollari per trasmettere in esclusiva per 12 anni i College Football Playoff e per altri quattro bowl ne sborsa altri 470 milioni. Le stime globali dicono che il football di Division I FBS fattura 8,2 miliardi di dollari, sommato al basket si arriva secondo stime più ottimistiche a 12 miliardi: se fosse uno stato, la NCAA sarebbe al 127 posto mondiale su 195 nazioni riconosciute dal FMI.
Di contro la NCAA rimborsa il giocatore con borse di studio, e spese per 2.000-5.000 dollari a semestre ed extra come i viaggi per le emergenze mediche della famiglia, la somma arriva a circa il 10% del fatturato totale che i ragazzi aiutano a generare. Il resto finisce in gran parte nelle tasche bianche. Al di fuori degli atleti, livelli retributivi tra i principali sport campus sono astronomici. Lo stipendio del Direttore di Campus in FBS è circa 515.000 dollari, la retribuzione media base per allenatori di football supera i 2 milioni, mentre 37 dei 68 allenatori delle squadre presenti alla March Madness di quest’anno superano il milione all’anno di contratto.
Ma quello che mi ha più fatto pensare, non è questo sopra rappresentato. In fondo i ragazzi, grazie al loro talento, sono in grado di sostenersi nel percorso di istruzione d’elite ed avranno così la possibilità di accedere al mondo del lavoro da una posizione che decine di migliaia di studenti neri, bianchi, variamente colorati, non potranno mai avere. Ciò che turba viene invece dallo stesso mondo dello sport collegiale, ovvero quello che non si sostiene autonomamente: nuotatori e vogatori, giocatori di golf e atleti di fondo, tennisti, pallavolisti e giocatori lacrosse, la maggior parte di essi sostenuti e sovvenzionati dai profitti di football e di basket. Come i responsabili dello sport universitario, le statistiche NCAA indicano che questi sono sport a prevalente frequentazione bianca.
Sarà per questo che un sondaggio Washington Post/ABC News ha trovato che, mentre il 66% dei non-bianchi sarebbe d’accordo con la sindacalizzazione degli atleti, solo il 38% dei bianchi La pensa così. Allo stesso modo, il 51% dei non-bianchi è favorevole al pagamento degli atleti universitari, a fronte del 24% dei bianchi. Infine il 59% degli afro-americani affermava che gli atleti collegiali dovrebbero essere pagati, affermazione che trovava d’accordo solo il 26% dei bianchi. Questo perchè l’humus fondamentalmente razzista si installa su questioni economiche e fa si che i bianchi americani, secondo studi come quelli del prof. Tatishe Nteta, University of Massachusetts, siano contro le politiche di aiuto economico alle minoranze afroamericane, nello specifico pagare gli atleti perchè convinti che questi soldi verranno sputtanati in tatuaggi, erba, e vestiti ridicoli alla Cam Newton.
Peccato che le statistiche siano impietose: le famiglie afroamericane guadagnano in media il 35% in meno di quelle bianche, e gli studi dicono che l’accesso a qualsiasi sport diverso da football e basket diventa più difficile man mano che il reddito medio della famiglia si abbassa.
Man mano che la NCAA incassa da atleti neri che continuano a giocare praticamente a livello di sussistenza, migliora la qualità di impianti e allenamento per gli sport a prevalenza bianca. Questo a fronte di un valore del lavoro che, se confrontato con la NFL e la NBA, dovrebbe essere pagato al giocatore rispettivamente circa 120.000 (football) e circa 265.000 (basket) dollari a stagione.
Non in questo preciso senso, ma con l’idea di fare qualcosa per gli studenti-atleti, è anche l’iniziativa dell’ex quarterback afroamericano della Northwestern University Kain Colter, sfociata nella decisione della sezione di Chicago del National Labor Relations Board (NLRB) che ha stabilito che i giocatori di football di Northwestern si qualificano come dipendenti dell’università e possono unirsi in sindacato. Peter Sung Ohr, direttore locale del NLRB, cita l’impegno richiesto ai giocatori nel loro sport e soprattutto il fatto che le loro borse di studio siano legate direttamente alle loro prestazioni sul campo, ragioni sufficienti a concedere loro i diritti sindacali. Questa iniziativa è stata avviata soprattutto a protezione degli atleti con infortuni lunghi o lesioni croniche, che puntualmente vengono lasciati a piedi dagli atenei lla scadenza della borsa di studio annuale, Colter è anche nipote di quel Cleveland Colter fermato da un infortunio al ginocchio nell’anno da senior a USC, quando già si parlava di lui come una delle stelle del successivo Draft. Il fatto che i ragazzi vengano tenuti in uno status di dilettantismo peraltro, crea problemi di negoziazione perchè, in buona sostanza, gli impedisce la sindacalizzazione come succede invece in NFL con NFLPA, il sindacato dei giocatori.
Nel limbo delle squadre universitarie, nonostante potenzialmente possano accedere a contratti professionistici profumatamente pagati, gli atleti sono dei cittadini di serie B.
Si potrebbe dire che da una parte, se anche non ottieni un posto in NFL, hai avuto circa 200.000 dollari di spese per istruzione che ti hanno permesso di frequentare college eccellenti e farti un pezzo di carta importante da sfruttare successivamente, se va bene avrai un contratto che ti ripaga dei sacrifici sul campo. Il 67% di tutti gli atleti di Division I si laureerà, un tasso di laurea leggermente superiore a quella dei non-atleti. Questo perchè si tiene conto di tutti, bianchi e neri.
Nel 2012, uno studio della University of Pennsylvania ha riferito che il tasso di laurea in sei anni per gli atleti neri universitari di sesso maschile in sei principali Conference di Division I era del 50,2%, meno del tasso di laurea per tutti gli studenti (72,8%), tutti gli atleti di college (66,9%), e tutti gli studenti maschi afroamericani (55,5%). Nel 2016, un aggiornamento ha rilevato che il tasso di laurea dei maschi neri era leggermente migliorato a 53,6%.
A questo si aggiunge il fatto che ricerche riportate nell’articolo parlano di scelte di facoltà “morbide”, per affrontare carichi di lavoro sportivo e stress mentale degni del più spinto professionismo che non sorprende, dato che giocare a football o basket è un “lavoro” mentalmente logorante, e fisicamente spossante che impiega 40-60 ore a settimana e non permette la preparazione a corsi di laurea impegnativi. Una indagine di USA Today sul fenomeno del clustering, ovvero della coagulazione delle iscrizioni verso alcune facoltà ha dimostrato che gli studenti-atleti afroamericani sono più portati per questo fenomeno.
Se questo non bastasse nel mettere in dubbio l’abbinamento tra studio e sport, quest’anno la Final Four del basket NCAA ha visto in campo Syracuse e North Carolina, i cui programmi sono stati recentemente coinvolti in scandali accademici. Un’indagine NCAA ha scoperto che i membri dello staff atletico degli Orange hanno avuto accesso alle caselle di posta elettronica di diversi atleti, fingendosi gli atleti stessi e comunicando direttamente con i docenti, e realizzando il lavoro scolastico per loro per evitare di perdere l’eleggibilità alle competizioni NCAA. A North Carolina addirittura pare che 1.500 atleti per più di 18 anni abbiano avuto interamente o parzialmente la “pappa cotta” per quanto riguarda le attività accademiche, proprio perchè queste ultime non ostacolassero il vero percorso atteso dai ragazzi, ovvero quello sportivo.
Sono stato molto combattuto sullo scrivere questo pezzo, mi veniva in mente Reggie Bush che aveva ricevuto quasi 300.000 dollari di regali e facilitazioni rovinando per sempre il nome di USC ed aveva costretto gli organizzatori a ritirargli l’Heisman dando il colpo di grazia ad un trofeo che doveva premiare la “pursuit of excellence with integrity”, o le maialate di Ohio State ai tempi in cui frequentava Terrelle Pryor. Questo però poi è stato oscurato soprattutto dalla massa di ragazzi spremuti dalle Università e rimasti fuori dal mondo professionistico, e dal grave problema degli infortuni e delle “malattie professionali” i cui costi quasi sempre cadono sulle famiglie della fanteria dello sport collegiale.
Il carrozzone, con i suoi incassi incredibili, assume veramente le sembianze del padrone della piantagione. Chi raccoglie il cotone è facile capirlo.