Salary cap: una trattazione universitaria

Nella recente crisi del calcio italiano, è stata proposta l’introduzione di un “tetto” al salario dei calciatori . Il problema nasce da due fattori: il primo è associato al fatto che nello sport ciò che conta maggiormente è l’equilibrio competitivo perchè l’interesse suscitato da uno spettacolo sportivo dipende sia da una certa parità di opportunità di partenza, sia dall’incertezza del risultato. Il secondo è legato alla regola del “vincitore prende tutto”.
In assenza di regole precise, la combinazione dei due fattori fa sì che non vi sia limite all’impegno finanziario che le società possono mettere in gioco nella rincorsa all’acquisizione dei talenti sportivi per migliorare la propria probabilità di vincita.
Non vi è dubbio che il calcio europeo sia ormai sempre più orientato verso il business commerciale e, in tal senso, viene meno il fondamento della tradizionale controversia economica su quale siano effettivamente gli obiettivi (di massimizzazione) delle società sportive.

 

L’esempio americano

Lo sport nordamericano, influenzato dalla concorrenza economica ben prima di quello europeoe avendo conosciuto diverse crisi finanziarie ben prima di quello europeo, dispone dialcuni strumenti di regolazione, che concorrono a garantire l’equilibrio competitivo per evitare che il benessere singolo di una società prevalga sul quello collettivo della lega. Due esempi sono il rookie draft e il salary cap:nel primo caso gli ingressi di giovani talenti vengono decisi dalle squadre con priorità in ordine inverso rispetto alla posizione relativa nella classifica all’interno della lega (le prime scelgono per ultime); nel secondo caso, viene fissato un ammontare massimo (in termini assoluti) che può essere speso per le retribuzioni dei giocatori. Il “tetto” salariale, così, vincolando ed equilibrando le remunerazioni degli atleti, dovrebbe consentire alle società di trattenere il talento di gioco ed evitare la concentrazione di giocatori “superstar” in poche squadre, mantenendo in questo modo vario e incerto lo svolgimento della stagione sportiva e attirando così l’interesse dei tifosi.

Da un punto di vista economico, il “tetto” salariale corregge un fallimento di mercato dovuto al fatto che le società sportive non tengono conto dell’equilibrio competitivo della lega quando prendono decisioni sul talento di gioco della loro squadra e si contendono i giocatori offrendo remunerazioni stratosferiche. La critica di solito avanzata al salary cap e basata sul fatto che “contribuirebbe a ridurre gli interessi commerciali e le entrate della lega”, è fuori luogo perchè il valore “commerciale” deriva proprio dall’equilibrio competitivo.

 

Come funziona il Salary Cap

Il salary cap può essere descritto come un accordo tra i giocatori professionisti (rappresentati da una associazione sindacale) e le società (consorziate nella lega sportiva circa il massimo ammontare che può) essere speso da ogni squadra per le remunerazioni dei giocatori. Spesso questi accordi sono accompagnati anche da un sistema di “revenue sharing” in cui viene fissato anche il tetto “minimo” che le squadre devono spendere, definendo così implicitamente anche un sussidio per le squadre più deboli. In altre parole, si tratta di un sistema che garantisce una divisione degli introiti prodotti all’interno di una lega in un determinato sport. Va da se, che il salary cap non è particolarmente gradito ai giocatori “superstar” che sono i più penalizzati dall’introduzione di un “tetto” al monte salari delle squadre. Negli Stati Uniti sia nel football “americano” (NFL), sia nel basket (NBA), sia nel baseball (MLB) accordi di tipo “salary cap” sono stati introdotti da tempo ed hanno contribuito sia alla solidità finanziaria delle squadre sportive, sia a sviluppare e mantenere l’interesse competitivo nello sport da parte dei tifosi. L’introduzione del “salary cap”, tuttavia, non è avvenuta senza controversie: nel 1993 nella MLB la stagione venne compromessa da uno sciopero dei giocatori in seguito ad un mancato accordo sul “salary cap”; mentre durante la stagione 1998-99 nella NBA vi fu una serrata dei proprietari, anche in questo caso per un mancato accordo riguardo la percentuale di condivisione delle entrate tra le controparti. Le modalità di implementazione del tetto salariale possono variare a seconda del contesto della lega sportiva considerata, ma in generale l’obiettivo condiviso è quello di contenere possibili spirali di inflazione salariale degli atleti.
Il tetto può essere individuale o collettivo: il primo si sostanzia nell’applicazione di un limite massimo e minimo al salario di ogni singolo atleta in conformità a determinati criteri (ad esempio età, esperienza, performance e altre variabili); il secondo viene esclusivamente imposto ai monte-salari complessivi di ogni singola società, vincolato a limiti massimi e minimi e rivisto annualmente in funzione dell’andamento degli introiti totali incassati dalla lega sportiva, come singola entità economica.
Il tetto salariale si articola anche in “hard” (rigido) oppure “soft”(elastico).
Con un tetto salariale rigido, le società sono obbligate senza alcuna possibilità di eccezione a non oltrepassare i limiti imposti. Con un tetto salariale elastico la lega concede la facoltà di non rispettare il vincolo, pena però l’applicazione di determinate penalità come ad esempio una “luxury tax” (una penalità prefissata da corrispondere alla lega per le società che superano il limite di spesa).
Le diverse modalità di applicazione e la possibilità di comminare multe (a chi non rispetta i vincoli) consentono gradi di libertà e garantiscono la collaborazione nel tempo all’interno delle leghe sportive.

Ha collaborato Gianbattista Rossi (Università Cattolica) autore di una tesi dal titolo “il mercato del lavoro dei calciatori”