Il cielo sopra la Grande Mela

Gli appassionati di qualsiasi sport si dividono in due categorie: quelli amanti dei numeri, degli almanacchi, di ogni statistica possibile e immaginabile; e gli altri, quelli che inseguono le storie, che non si fermano al tabulato, che sanno esserci molto di più dietro a un singolo evento sportivo.
E lo sport made in USA, malgrado là le statistiche siano una sorta di religione, è soprattutto fatto di storie, con quella capacità tutta americana di crearne e consegnare momenti a ricordi che a fatica saranno cancellati; ecco perché noi italiani spesso ci lasciamo sorprendere da certi eventi, abituati come siamo alle paludi agonistiche nostrane dove non cambia alcunché e, ammettiamolo, la capacità di sognare qualcosa di diverso l’abbiamo persa da un pezzo.
Chi ha potuto seguire il campionato NFL appena conclusosi, sa che ci sono squadre nate per entrare nel mito.
E fin dall’inizio, cioè da quando i custodi dei campi da gioco la scorsa estate avevano aperto i cancelli dei ritiri, tutti sapevano che quel posto sarebbe spettato di diritto ai New England Patriots. Un coro unanime sia “sulla carta”, sia nei commenti degli analisti che nelle previsioni di ogni bookmaker conosciuto. E anche durante la stagione i termini più gettonati erano due: perfect season e “predestinati”.
Niente da dire.
Storie e non numeri, dicevamo.
A volte, invece, capita che i pronostici siano fatti per essere irrisi, e che all’orizzonte qualcuno peschi nel profondo delle proprie motivazioni, del cuore e in quel carattere che da sempre è l’elemento cardine che fa la differenza in ogni sport.
Quindi, a volte capita che i predestinati scoprano che i numeri non bastano, e che arrivare a sfiorare il mito non è la stessa cosa che conquistarlo, e che magari quando meno te l’aspetti e nell’esatto istante in cui vedi il gradino più alto del podio, gli dèi del football decidano di guardare nell’altra metà del campo, dritto negli occhi del piccolo Davide che, strafottente, ricambia quello sguardo e fa capire che per quella sera il gigante vero sarà lui.
Lì i falsi miti si fermano. E nel mito entra qualcun altro.
A inizio stagione gli analisti davano i New York Giants come quarti nella NFC East e, anche se con qualche dubbio riguardo a una stagione così catastrofica, i tifosi newyorchesi avevano ben pochi motivi per prevedere una classifica appena migliore. E a ben guardare i fatti non si poteva certo dar loro torto.
L’anno precedente si era concluso con poco esaltante 8-8 che, se da un lato aveva garantito l’ingresso ai playoff per il rotto della cuffia, dall’altro aveva gettato i Giganti in pasto a squadre più attrezzate e motivate. Risultato: la seconda brutta figura consecutiva alla wild card in due anni, squadra impalpabile, polemiche a volontà e un futuro tutto da decifrare.
Il colore blu a New York era decisamente sbiadito e i motivi erano molteplici.
Lo spogliatoio risentiva di una crisi profonda. Il rapporto non idilliaco tra i molti senatori e coach Coughlin era arrivato al capolinea. Il Sergente di Ferro aveva condotto la squadra con pugno duro nei tre anni precedenti, chiamato dalla società a gestire lo sfascio generale ereditato dalla gestione Fassel.

Tom Coughlin
Tiki Barber, la stella offensiva dei Giants, annunciava il ritiro anticipato e quasi inspiegabile (per età e condizioni fisiche), ufficialmente allettato dai ponti d’oro promessi da un’emittente televisiva che lo voleva come commentatore.
Michael Strahan, la stella difensiva e leader NFL nei sack, era ai ferri corti con la società; voglioso di un aumento minacciava di cambiare aria ma in realtà, come molti altri, da Shockey a Burress, mal sopportava l’head coach.

Michael Strahan
E in più la prima scelta di due anni prima, Eli Manning, era sempre più un’incognita; giocatore dalle potenzialità mai pienamente espresse e, soprattutto, dalle carenze caratteriali più volte evidenziate, tanto che davvero forte era il coro dei tifosi che ne chiedeva la testa, incitando la società a un atto di coraggio e ammettere che lasciare andare Rivers a San Diego per inseguire il fratellino di Peyton si era rivelato un errore.
Nella “Mailbox” nel sito dei Giants un tifoso a maggio chiedeva: “Ma siamo sicuri che abbia gli stessi geni del fratello e non sia stato adottato?”.

Eli Manning
Davanti a uno spogliatoio spaccato e ad una situazione tecnica che ristagnava nel caos, la dirigenza, in mancanza di alternative sul mercato, non trovava nulla di meglio da fare che rinnovare il contratto a Coughlin per un anno soltanto, palesando così la strisciante sfiducia nei confronti del tecnico con un accordo che fra le righe recitava: “Per quest’anno non abbiamo nulla di meglio, quindi resta pure ma tieni pronte le valigie per dicembre”.
A tutto questo si aggiunse anche un draft che definire condotto sottotono è un eufemismo, con i manager dei Giants impegnati più a inseguire quel che era rimasto che a effettuare almeno una scelta voluta e cercata.
Gli analisti sparavano a zero, i tifosi dirimpettai dei Jets ridacchiavano mentre quelli vestiti di blu si preparavano a un’annata di transizione, trovando conforto soltanto nelle voci che davano Bill Cowher, l’ex coach degli Steelers, avvistato all’aeroporto La Guardia.
Unica novità accolta con favore fu l’arrivo di Spagunolo dagli Eagles come defensive coordinator, che proprio a Philadelphia aveva lavorato benissimo facendo sì che quella degli aquilotti fosse una delle migliori difese NFL degli ultimi anni.
E a New York, con ancora negli occhi le due stagioni precedenti, sapevano bene quanto ci fosse bisogno di uno straccio di difesa.
Inutile dire che dopo le prime due partite di campionato, con un tabellino che segnava uno 0-2 tondo tondo e ottanta punti subiti, i tifosi erano scesi in garage, avevano preso la pala ed erano andati a cercare un posto dove sotterrarsi. Lo smog della Grande Mela era nulla a confronto dell’aria che si respirava intorno ai Giants.
Ma in un modo o nell’altro la stagione era andata avanti, con la squadra che aveva trovato un minimo di equilibrio e alcuni buoni momenti, senza però accendere eccessivamente la fantasia dei tifosi. Brandon Jacobs aveva sostituito in modo onesto Barber, la difesa si era assestata, il gioco conservativo di Coughlin non brillava ma almeno evitava troppe figuracce, Eli Manning faceva i suoi compitini veleggiando su medie da sei politico e i tifosi, messi davanti a un 10-6 più che dignitoso, un secondo posto in Division e soprattutto una bellissima partita di chiusura persa per tre punti proprio contro i Patriots, avevano potuto riporre la pala. In fondo gli analisti non ci avevano azzeccato troppo.
Ancora una volta playoffs quindi, ma incoraggiava ben poco il sapere di trovarsi di fronte le due corazzate NFC, i Cowboys e i Packers, che se da un lato avevano beneficiato della pochezza della NFC intera e delle rispettive Divisions, dall’altro rivestivano il ruolo deciso di favorite per il Championship. Ma prima c’era la Wild Card a Tampa, contro dei Buccaneers usciti da un’ottima stagione e una lista infortunati che in casa Giants era abbastanza lunga e che, soprattutto, riportava in cima Shockey e Kiwanuka. Le premesse per bissare i “successi” delle Wild Card precedenti c’erano tutte.
E invece, una volta tanto, i Giganti mostravano quel che non ti aspetti di fronte a una squadra per certi versi molto simile: carattere. Combattevano su ogni palla, non perdevano la concentrazione per un istante, la difesa teneva botto e soprattutto Eli Manning non buttava una palla che sia una, evitando lo stillicidio di intercetti e le medie da sopravvivenza della stagione regolare.
Il tifoso vestito di blu non pensava più a quella benedetta pala e si stropicciava gli occhi: finalmente avrebbe potuto togliere dall’agenda quello 0-2 ai playoff della gestione Coughlin/Manning. Alla fine l’annata non era stata poi così inguardabile, sì, perché il nostro tifoso ragionava già da stagione conclusa mollando lì qualunque velleità quando il cronista l’aveva informato che la prossima settimana lo avrebbe aspettato una bella scampagnata al Texas Stadium, tana di quei Cowboys col miglior record di Conference, che durante la stagione regolare avevano sconfitto i newyorchesi per ben due volte e i cui tifosi già stavano stampando i cappellini celebrativi per il viaggio al Superbowl. Ma i Giants, che prima dei playoff erano stati definiti road warriors perché avevano vinto tutte le partite fuori casa tranne una, rimediando al contrario magre figure tra le mura domestiche, davano per tutta la durata della partita in Texas l’impressione di credere più nella cabala che nelle statistiche, e malgrado una difesa costretta sul terreno di gioco per quasi tutto il secondo tempo, sfornavano una prestazione che perfino Conan il Barbaro avrebbe trovato esaltante, mettendo nel carniere quello che a New York considerano il trofeo più prestigioso: la testa dei Cowboys.
Il tifoso vestito di blu a quel punto proprio non ricordava più di avere quella pala in garage, ma anzi, anche se sapeva che sarebbe dovuto andare nella “Frozen Tundra” di Green Bay e trovarsi di fronte Brett Favre, il mito vestito da uomo, sentiva una piccola fiammella alimentargli lo spirito, perché la speranza è qualcosa che aveva imparato ad apprezzare. E i suoi Giganti ancora una volta lo ripagavano, nonostante quella fosse la terza partita più fredda della storia, nonostante i calci sbagliati da Tynes, nonostante l’overtime e il rischio di infarto; Coughlin era viola sulla sideline, la difesa di Spagnuolo sembrava la Muraglia Cinese e per la terza partita consecutiva Eli Manning era perfetto sulle palle che contano: zero intercetti e una freddezza in grado di gelare i pinguini della baia.
I road warriors applicavano per l’ennesima volta la loro legge, si laureavano Campioni di Confe-ence e il tifoso vestito di blu buttava maglietta e pantaloncini in valigia, prenotava un volo per il caldo dell’Arizona e tirava fuori l’auto dal garage, ma non prima di aver spezzato con un colpo secco della coscia quell’accidente di pala.
Il Superbowl l’hanno visto tutti. E quelli che non ne hanno avuta la possibilità di sicuro ne hanno sentito parlare. Patriots e Giants. Predestinati e outsiders. Ma con i secondi che lungo la strada avevano avuto modo di farsi un cuore grande come il Grand Canyon e scoprire che se proprio uno lo vuole i numeri non contano. Una partita, lo dicono in molti, che passerà alla storia; una di quelle storie che gli americani adorano, uno degli eventi ai quali affibbiano sempre un nome, come “The catch” di Clark, o “The drive” di Elway. Già si parla di “The miracle”, la ricezione di Tyree dopo una magia di Manning per la quale andrebbe ricordato minimo come “The ghost”.
Ma non è questo l’importante. Andatevi a guardare le statistiche se avete voglia di numeri, perché qua si parla d’altro.
Ora ci sarà una nuova storia da raccontare e ricordare, quella dei Giants edizione 2007/2008, una squadra che quella storia l’ha fatta, costruendola con sangue, sudore e attributi, affrontando le difficoltà e il destino come dei veri Giganti, per questo meritevoli di fregiarsi del titolo di Campioni del Mondo e di guadagnarsi un posto vicino ad altri miti nella storia del football americano.
E il nostro tifoso?
Bé, lui è tornato da poco a casa, e di una cosa è sicuro: che almeno per un anno il cielo sopra la Grande Mela sarà di un bellissimo “Big Blue”.

Bravo ALberto, una storia scritta con passione e giusto orgoglio: tanto di cappello anche da un fiero “rivale” vaccaro!
Complimenti, gran pezzo!
Bel pezzo ma lo sport