La NFLPA di nuovo contro il salary cap
L’attacco al Contratto Collettivo (CBA) della Nfl è partito, il colpo sferrato verso l’ossatura di quell’insieme di codici e norme che reggono in piedi (o almeno ci provano) l’equilibrio della Lega più ricca del mondo, sta per arrivare a destinazione. Non è la prima volta, anzi, si tratta del secondo tentativo in due anni e, di nuovo, la stampa americana sembra snobbare la situazione. Eppure il pericolo è grave, a rischio nientemeno che il salary cap, il punto forte di un contratto che garantisce la stessa spesa per tutto il monte stipendi giocatori delle 32 squadre Nfl. Niente luxury tax, nessuna possibilità di sforare, ma un tetto unico per tutte che si aggiorna di anno in anno.
Gene Upshaw (foto), presidente dell’associazione giocatori (NFLPA) era già stato critico con il nuovo CBA al momento della firma del rinnovo (2006) e, stavolta, sembra deciso a far crollare il castello andando fino in fondo con la sua protesta. Pomo della discordia è, appunto, il tetto salariale, troppo appannaggio delle società che ogni anno si mettono in tasca un sacco di soldi in più senza ripartirli, in modo equo, ai giocatori in rosa. In soldoni, il cap è salito per questo 2008 a 116 milioni di dollari, sette in più dell’anno precedente, circa il 36% di maggiorazione rispetto al rinnovo del CBA (2006). Questo significa parecchi soldi in più da spendere entrati negli ultimi anni e, non di poco conto, salari maggiorati per i giocatori che hanno rinnovato. Upshaw, però, contesta questa escalation. Al di là delle, ovvie, antipatie per sistemi quali i franchise tag che “bloccano” il giocatore per un anno rischiando di fargli perdere il cosiddetto “contratto della vita” (benché con un tag si passi spesso una stagione a stipendi altissimi) il problema su cui si focalizza maggiormente il presidente della NFLPA, uscito di nuovo allo scoperto in sala stampa a Indianapolis poco prima dell’inizio delle ultime combine, è quello della disparità di guadagno tra società e giocatori.
Upshaw sostiene che (ipotizziamo numeri casuali per lasciare intendere a chi legge) se l’aumento degli introiti collettivi della lega permette di guadagnare a una squadra 100 dollari in più, di questi solo 7 vanno a rimpinguare le casse per il salary cap, meno del 10%, evidenziando un sistema troppo a sfavore del giocatore che, di fatto, è colui che la gente vuole vedere, il vero protagonista del gioco. Vero, si dirà, ma vero anche che i contratti strappati nel periodo di free agency degli ultimi anni sono da colpo al cuore. Saranno anche contratti rivedibili nel corso delle stagioni futura ma, per citare un esempio recente, il ricevitore ex Denver Javon Walker (classe 1978) ha appena strappato un contratto di sei anni da 55 milioni di dollari con un garantito di 16; nei primi tre anni (quelli in cui salvo problemi fisici sarà di sicuro a roster), di quei 55 ne vedrà arrivare 27. Parliamo di un giocatore di valore certo ma che non sappiamo se e come recupererà dai guai fisici; potrebbe non ricevere più un pallone decente per tutto l’anno sapendo che incasserà, da qui a dicembre, circa 25 milioni di dollari (i 16 di garantito, che potrebbero non arrivare subito ma che sono certi e i circa 9 di quei 27 che incasserà nei primi tre anni).
Ora, si può pensare di tutto, ma lamentare il fatto che con questo salary cap i giocatori non ci guadagnino ha dell’assurdo. Il punto reale è che Upshaw vuole creare un sistema in cui nessun giocatore venga escluso, nemmeno chi si è giocato male le carte in fase di trattativa, dando a tutti la chance di trovare un contratto esagerato, anche in squadre già belle piene di firme ingombranti. E’ il caso di Lance Briggs, ad esempio, ottimo linebacker dei Chicago Bears che, dopo quasi due anni di tira e molla, è rimasto nella Città del Vento alle condizioni della società perché nessuno, dopo le pessime mosse di un anno fa affrontate insieme al suo agente, ha deciso di alzare la posta. Forse nessuno avrebbe rilanciato nemmeno senza problemi di tetto salariale, ma è facile intuire che un giocatore di quel livello avrebbe ricevuto certamente più avances se non fosse stato che qualche economista doveva far quadrare i bilanci a dovere. Forse gli stessi Bears avrebbero dovuto sborsare di più per trattenere il giocatore in una situazione libera dai vincoli di un tetto salariale.
Fatto sta che, senza voler cadere in facili moralismi, gli stipendi che girano nella Nfl fanno impallidire chiunque e non sembra etico protestare per qualche milione di dollari; dalla Nflpa nasce una contestazione basata sul fatto che una carriera di football sia breve e costantemente a rischio, le regole sui tagli, le riletture dei contratti in essere, i tag, penalizzano quei giocatori che non trovano modo di esprimersi a dovere o finiscono troppo anticipatamente in una infermeria per parecchi mesi. Non hanno tutti i torti, ci mancherebbe, ma la minaccia di fare saltare il salary cap nel 2009 è di quelle da prendere sul serio vista la loro pericolosità e ci sembra spropositata rispetto all’attuale andamento del mercato giocatori.
Punto uno: se nel 2009 la Nfl perdesse il tetto salariale sarebbe poi impossibile, per qualche anno, rientrare. Anche ristabilendolo in futuro, poi, non è detto che vi si riuscirebbe con un tetto rigido come ora, più probabile qualcosa di flessibile con luxury tax stile Nba. Punto due: oltre a rischiare di perdere equilibrio economico, rischieremo di vedere il crollo delle realtà più “piccole”. Carolina e Jacksonville come reggerebbero il confronto davanti a squadre di immense metropoli sportive come Dallas, New York, Miami, Chicago? Punto tre: il rischio sarebbe un aumento inverosimile dei prezzi, soprattutto per i rookie considerati di grande talento, che potrebbe portare alla bancarotta di alcune società e, di conseguenza, sistemare una franchigia in una nuova proprietà non sarebbe poi così facile.
Siamo al bivio: Upshaw minaccia uno sciopero dei giocatori se non viene rivisto il CBA (scadrebbe nel 2012, ma lui è già disposto a far saltare tutto), ma i proprietari non staranno certo a guardare e, a fronte di troppe spese, il rischio è che siano loro a trincerarsi dietro ad un anno sabbatico stile Nhl due anni fa. Il che, inutile dirlo, sarebbe uno smacco alla (semi) perfezione della Nfl la quale potrebbe perdere buonissima parte dei favori ottenuti in questi ultimi 25-30 anni. E’ successo alla Mlb, è successo alla Nhl; il calo è stato forte, il pubblico non ha dimenticato lo sgarro subito. Inoltre, dietro l’angolo, è in arrivo la United Football League, che ha alle sue spalle i soldi e le capacità manageriali di gente comeTim Armstrong di Google e Mark Cuban dei Dallas Mavericks di Nba, oltre ai soliti affaristi dal portafoglio gonfio.
La Ufl vuole mettersi in competizione con la Nfl sul suo stesso piano e incrociando quasi alla perfezione il suo calendario promettendo, in pieno stile campagna elettorale, più lavoro per tutti e salari più alti. Altro che Obama e Hillary, il successo della politica statunitense si cela qui. Il lavoro in un football “vero”, per chi rimane free agent o è indirizzato alle practice squad, e più soldi da investire nei salari senza il problema del cap. E niente Nfl Europa, stavolta si parla di Los Angeles e Las Vegas, ma anche di Oklahoma City e San Antonio. Piazze importanti, orfane del football pro. Potrebbe fallire come tante altre leghe in passato, ma se entrasse in campo mentre dall’altra parte si sciopera i danni per la Nfl sarebbero incalcolabili.
Fermo restando che togliere il salary cap non significa far vincere sempre i più ricchi (pensate all’Inter del nostro calcio o alle due squadre di NY di baseball e basket, quegli Yankees impantanati da qualche anno di troppo e i Knicks ormai divenuti una barzelletta), è ovvio che il sistema di equilibrio cresciuto in Nfl ha quantomeno sempre dato la possibilità ad ogni tifoso di sentirsi alla pari delle altre 31 rivali ai nastri di partenza. Che di per sé non è poco. Dove vuole arrivare Upshaw? Le congetture lasciamole da parte, il fatto che la Ufl sarebbe dannosa anche per l’organizzazione che lui stesso rappresenta se riuscisse a fare breccia nel mezzo di uno sciopero giocatori, è oggi argomento ancora lontano, anche se, va ribadito, prestare poca attenzione a chi sta per immettersi sul mercato con certi nomi alle spalle è sempre un rischio.
La soluzione di aumentare a dismisura il tetto salariale equivarrebbe quasi a toglierlo, ma sarebbe pur sempre un limite rigido e definito da rispettare per tutti che prolungherebbe nel tempo l’idea di equilibrio che ci siamo fatti della lega oggi gestita da Roger Goodell. Un’altra soluzione sarebbe quella di inserire un cap per i rookie, ammortizzando le spese sui nuovi entrati nel professionismo che ancora molto hanno da dimostrare e premettendo ai proprietari contratti più alti per i propri free agent. Perché, diciamolo, oltre alla montagna di soldi per cui sono stati firmati i Javon Walker e gli Asante Samuel, c’è anche quella che spetta alle prime scelte del draft, pratica ormai poco gradita ai proprietari quando è ora di mettere tutto nero su bianco. Upshaw, però, non concorda nemmeno su un eventuale limite per gli esordienti.
Dice la sua Bill Polian, presidente degli Indianapolis Colts: “Il valore economico delle scelte al draft è ormai fuori da ogni logica. L’idea che una squadra scadente migliori attraverso la scelta di uno o più giocatori è ormai da scartare, perché con la situazione salariale che ti ritrovi questi devono diventarti dei Pro-Bowler quasi immediatamente per ripagarti dei soldi spesi visto che i veterani rischi di perderli. Il punto di unione [con la Nflpa n.d.r.] è quello di concederci un tetto salariale sui rookie. Sappiamo perfettamente di avere i soldi per fare buoni contratti a rookie e veterani insieme, nessuno è qui per tentare di risparmiare denaro. Il punto è che non si può versare una cifra immensa ad atleti che non hanno ancora dimostrato il proprio valore contro nessuno se non contro Eastern Michigan“.
Gene Upshaw ribatte però che una carriera media in Nfl finisce intorno ai 31/32 anni; se limitiamo le possibilità di guadagno per un rookie entrato a 22 anni con un contratto quadriennale, metà della sua carriera è potenzialmente andata. Servirebbe ragionare quindi sul modo in cui strutturare i contratti per le matricole. Ma è davvero il caso? Personalmente ritengo che oggi sia i prezzi per i rookie che per i free agent abbiano raggiunto livelli esorbitanti, un attacco del genere al salary cap è pretestuoso, stupido, colmo di avidità. Lasciando perdere le firme di Javon Walker, o quella di Dre’ Bly un anno fa, è evidente che oggi chi voglia un giocatore vi si butti con il maggior numero di ex presidenti stampati su carta verde da spendere. Poco male, soprattutto se poi si hanno i soldi per firmare un JaMarcus Russell, come successo ai Raiders, a cifre astronomiche e trovarselo scontento e a rischio holdout.
Se questo modo da viziati che tanto è in voga tra i rookie di oggi prende piede così bene (Russell lo scorso anno, ma anche Cedric Benson nel 2005 o lo stesso Brady Quinn, irritato a firmare un contratto proposto da una squadra che teoricamente poteva anche averlo salvato da una caduta al secondo giro) allora altro che salary cap, si salvi chi può. Upshaw sostiene che mettere un cap ai rookie diversificherebbe un terzo dei contratti in essere in Nfl visto l’altissimo numero di debuttanti presenti ogni anno, ma a noi sembra che questa non sia altro che una regola di mercato più che giusta che è sempre stata alla base dello sport americano nella sua migliore evoluzione: prima dimostri poi arrivano i soldi. Più o meno.
Dove si arriverà è difficile dirlo, ma siamo dell’idea che Goodell sia prima o poi obbligato a prendere di petto la situazione e a gestirla meglio di quanto non abbia fatto con altre faccende nel recente passato (lo Spy-gate e il caso Vick, per intenderci).
Nel silenzio più o meno generale una timida proposta la avanza Dan Pompei, autorevole ed esperto giornalista del Chicago Tribune, il quale lancia l’idea di un contratto per i rookie non superiore ai due anni con un tetto salariale piuttosto basso. Allo scadere dei due anni i giocatori possono trattare un altro biennale senza salary cap, dopodiché diventerebbero free agent. Quattro anni per dimostrare di essere da Nfl e portare a casa un po’ di soldi, il resto della carriera (5, 6, 7 anni o più in alcuni ruoli) per diventare… ricchi. O ancora più ricchi, se preferite. Resta da capire anche a che livello sia la sfiducia di Upshaw nei confronti dei proprietari e quanto di vero o di “semplicemente minaccioso” ci sia nei suoi attacchi. Secondo il presidente della Nflpa un ottimo contratto ai rookie incentiva i veterani a chiedere di più e questo è un bene per gli atleti che possono guadagnare tanti soldi (grazie…); 35 milioni di garantito a un quarterback rookie spingono per forza di cose, sempre secondo la Teoria Upshaw, un Peyton Manning ad andare al rilancio per il proprio contratto. Scontato che, per questo esercizio, il salary cap vada rivisto o, anzi, tolto del tutto, ma scontato anche che il punto di bancarotta per una società si avvicinerebbe alla velocità della luce con questo genere di equazioni. Un discorso che non regge se non alle orecchie di chi nella lega ci sta per entrare e non solo ha la pretesa di valere già quanto Peyton Manning, ma rischia di convincersi che il suo pretendere possa aiutare anche il quarterback di Indianapolis a mettere via qualche quattrino per una pensione che, diversamente, non ci sembra così squallida in prospettiva, con un mutuo pesante sulle spalle e un pasto scroccato alla Caritas.
I proprietari, invece, non vorrebbero più spendere così tanto per chi ancora ha da dimostrare e, magari, fa anche le bizze per un milione di dollari (su trenta!). Loro non rivedrebbero il salary cap, ma ne aggiungerebbero uno per i rookie, così da avere anche più soldi per i veterani e fare tutti contenti. Non c’è la volontà di chi scrive di schierarsi, né di insistere su certi tasti che potrebbero passare come eccessivamente moralistici, ma sembra piuttosto evidente che, nonostante l’attuale squilibrio di cui giustamente si lamenta la Nflpa, non possa essere sistemato con richieste del tipo proposto da Gene Upshaw. Il numero uno dell’Associazione Giocatori sa certamente il fatto suo, e la calcolatrice la saprà usare molto meglio di tanti altri, ma incentivare una corsa alla spesa folle è, di per sé, un gesto malsano.
Da vedere anche quale sarà il modo in cui i 32 presidenti decideranno di muoversi in modo unito e se le intenzioni dei padroni del vapore siano o meno buone: vogliono togliere ai rookie per dare a veterani (finora) più meritevoli o vogliono semplicemente risparmiare? Inoltre, un tetto salariale per i rookie quanto peserebbe nell’economia di un draft che presenterebbe l’alternativa Ufl, lega che promette tutto fuorché un limite di spesa? Certo, oggi la “Lega di Cuban” non è niente più di uno spauracchio per il colosso Nfl, ma il tentativo di occupare basi importanti come Los Angeles, Las Vegas e New York sarebbe un incentivo in più per il pubblico di quelle città e per quei giocatori che, tra una Minneapolis e una Los Angeles, preferiscono ancora il sole della California. E il portafoglio gonfio. Fermo restando che vincere un Super Bowl non avrà mai lo stesso sapore e lo stesso blasone di uno United Bowl (o come lo chiameranno) e che quindi anche l’incentivo della glorificazione individuale pesa più dalla parte di Goodell e soci.
I soldi, però, dominano il mondo, e quindi la faccenda si fa piuttosto bollente. Ciò che c’è di certo è che il sistema, così come è concepito oggi, non va bene, non fa bene a chi investe su giovani promesse che poi finiscono a far pagliacciate in televisione o, semplicemente, hanno l’immensa sfortuna di rompersi o di non adattarsi a un altro tipo di gioco. O, peggio, finiscono alla Pacman Jones, coinvolti in sparatorie dove qualcuno ci lascia l’uso delle gambe: per sempre. Quanto possa pesare l’imminente arrivo di una nuova lega, oggi, è difficile a dirsi, anche se non sembra che sia così imminente una insidia davvero concreta. Di fatto però né la Nflpa né gli owner vogliono mollare di un centimetro; da una parte si minacciano scioperi e quant’altro per avere tutto e subito, dall’altro si cerca di spendere meno laddove non vi sia piena certezza di avere un ritorno concreto in fatto di risultati. E, lo sciopero, non è da scartare del tutto nemmeno lì, come visto dagli esempi sopracitati. Che poi, tra i due litiganti, sia il terzo a godere (Ufl), ci sentiamo di escluderlo, per ora, di fatto però arriveranno altri Dan Pompei e altre mille idee per aggiustare il giochino anche se, di una cosa, siamo certi: non finirà come nel 2006 con Gene Upshaw che accetta un contratto sbilanciato per poi ricominciare a urlare un minuto dopo. La sensazione è che stavolta si andrà in fondo e che, alla fine, saranno le squadre a cedere un pochino il passo.
L’investimento sulle prime scelte al draft rischia di diventare ormai un salto nel vuoto troppo pericoloso, tanto è vero che la propaganda di Cuban e soci sembra spesso più un modo per attirare attenzione che non la vera strada che, una lega che si impone di essere duratura, può battere con serenità. Chiaro che dall’altra parte non si può sminuire tutto e abbassare la guardia, ci sembra scontato, come detto qualche riga più su, che uno sciopero guasterebbe l’affetto tra tifosi e Lega e porterebbe su un piatto d’argento una prima, storica, stagione per la United Football League. D’altro canto, però, se non si vuole cedere il tutto per tutto a Upshaw o cadere in strade senza ritorno, è necessario che siano la squadre a mollare qualcosa in più cercando, se non si riesce a “legalizzare” un calo dei prezzi sui rookie, di contrattare nuove cifre in accordo con tutti i proprietari. I giocatori preferiranno la Ufl? Uno sciopero? Forse i primi, come fu per Usfl o per la Afl, correranno da Armstrong e Cuban, senza garanzie e senza un futuro certo ma con tante belle promesse, ma nel giro di pochi anni la Nfl riuscirebbe (grazie anche a un motore politico non indifferente) a staccare i biglietti più importanti nei confronti della concorrenza. E a riportare a casa gli ammutinati del Bounty.
Meno facilità di utilizzo dei tag, più bonus, maggior possibilità di salario garantito per tutti e mantenimento di un salary cap, anche se più alto, potrebbero essere le strade che, insieme, detteranno il futuro della Lega più ricca del mondo, oggi come non mai fragile e indifesa nel silenzio di tutti quelli che attendono con trepidazione il draft. E un’altra presunta stella da riempire di soldi.
Alessandro, i miei pi
Io credo che la NFL farà bene ad impuntarsi per il mantenimento del salary cap e possibilmente anche per un tetto al salario d’ingresso dei rookie. E’ chiaro che il rischio dello scontro con NFLPA esiste e uno sciopero sarebbe disastroso, ma mai quanto un liberalizzazione selvaggia che finirebbe per travolgere (finanziariamente) la lega. E poi con chi non segue il football ho sempre sbandierato il salary cap come un vanto del football professionistico… cosa andrei a raccontare? 🙂
Bravissimo Ale, articolo molto interessante.
Sono d’accordo con Ale e con Timbo. Tocca darsi una regolata. In primis mantenere il salary-cap. In secondo luogo limitare i contratti dei rookies, magari facendoli anche pi
Articolo molto interessante che fa luce su degli aspetti che un semplice appassionato che capisce poco l’inglese e bazzica poco i siti USA, come me, non avrebbe mai conosciuto.
Grazie e spero ce ne siano altri cos
Io vado un po controcorrente. Secondo me il salary cap non
Puoi avere ragione Ale (a parte che i Raiders hanno giocato un Super Bowl 5 anni fa, non trenta) ma il bello del concetto di salary cap
Bellissimo articolo, complimenti a chi lo ha scritto.
Per quanto riguarda il tetto salariale sono dell’opinione che sia un vanto per l’NFL. Certo ha degli svantaggi e Upshaw li ha descritti benissimo, ma ha l’enorme vantaggio di far partire tutti economicamente sullo stesso piano. E questo dal punto di vista della sportivit