Questione di scelte
Nei giorni scorsi ci è capitato di tornare su vecchie letture in proposito dello sforzo, che appare sempre più vano, di Mike Ditka nella lotta in favore degli ex giocatori di football afflitti da terribili artrosi o, peggio, dalla demenza senile. Ditka da sempre accusa la Nfl di stendere un velo sui vecchi gladiatori colpiti da disagi fisici o psicologici causati dalla durezza del gioco e a poco è valso stanziare più soldi per la ricerca e il supporto di quegli atleti afflitti da demenza senile probabilmente provocata dai duri colpi alla testa subiti per anni.
Il grande ex tight end di Chicago e Dallas non è solo, ma le disgrazie dei giocatori che furono eroi dei campi verdi rigati in bianco non sono certo causa della National Football League che, nel suo piccolo, miglioramenti ne ha fatti eccome. Non c’è bisogno di scomodare le imprese leggendarie e le tristi fini di atleti pionieri, i cosiddetti two-ways player, giocatori che negli anni 20, 30 o 40 venivano schierati in ambo le situazioni di gioco, magari come fullback e linebacker e giungevano a quarant’anni senza riuscire nemmeno ad andare da soli al bagno. No, non c’è bisogno di scomodare tempi così epici e drammatici, né di tirare in ballo la solita solfa del doping. Il punto è lo sport.
Nato come gioco violentissimo che costrinse lo stesso presidente Theodore Roosvelt a scendere in campo, nel 1905, per spingere la creazione di una Lega (la Intercollegiate Athletic Association of the United States, oggi conosciuta come NCAA) che meglio tutelasse la salute dei giocatori in un’era in cui si contavano anche i morti sul campo (e non è una esagerazione), il football è comunque rimasto lo sport più ad alto rischio per la salute di chi lo pratica.
“E’ uno sport di collisione”, ricordate? La danza è dove avviene un contatto, il football dove avviene una collisione. Ci siamo cibati di queste frasi, di questi simboli, e di eroi che ogni domenica battagliano per raggiungere una endzone, con linee offensive e difensive che sputano l’anima, prendono e mollano colpi pur di aprire una strada, di proteggere un compagno, di regalare un secondo che potrebbe essere decisivo. Ricordate Kevin Everett alla prima giornata di un anno fa? Quel tight end di Buffalo schierato negli special tema che crollò a terra, dopo un colpo in apparenza banale e che rischiò prima di morire e poi di non essere più in grado di muoversi. Ricordate come vi siete sentiti? Male, perché nessuno vuole vedere cose così, perché nessuno pensa mai che una cosa del genere possa accadere. Greg Olsen, suo compagno all’università di Miami e oggi tight end dei Chicago Bears disse che “come giocatore di football non puoi pensare a questo genere di rischi. L’opportunità che capitino c’è sempre, ma non puoi pensarci o rovineresti ogni cosa”. Come a dire che non riusciresti a giocare. E’ come un pilota di Formula Uno che pensa che dietro ogni curva, dietro ogni sorpasso, lo attenda la morte. Impossibile schiacciare il pedale del gas.
Ed allora si riduce tutto a una questione di scelte, e se rifiutare i milioni e la vita agiata della Nfl sarebbe impossibile per chiunque, figuriamoci per chi ha lottato sin dalla Pop Warner League per arrivare proprio nell’Olimpo, un giorno. Lungi da noi pensare che Ditka non abbia ragione nel chiedere maggiore aiuto, più supporto a chi ha dato la vita anche per te, per il tuo show. E siamo ben lontani dal pensare che gli sforzi, anche economici, della Nfl siano oggi ai massimi livelli. Utopistico è credere che qualche soldo in più, con tutti gli zeri che volete, aiuterà il mondo a debellare la demenza senile o aiuterà chi soffre a sentirsi un pò meglio.
Il football è migliorato, è più sicuro. Ci sono regole che aiutano a rischiare meno, protezioni migliori, allenamenti migliori. La farmacologia ha fatto passi da gigante (anche troppo), gli allenamenti e la preparazione fisica anche. Ma il football resta lo sport col più alto tasso di infortuni permanenti nel mondo del professionismo. Nel mondo. Un’unica Lega, giocata in un unico paese, batte il resto del mondo tanto in economia quanto in disgrazie come queste.
Collezionare commozioni cerebrali, prendere colpi violenti ogni domenica, rompersi ossa, distruggersi gambe, braccia e schiena. Questa è la vita del giocatore di football, ma è una questione di scelte. Banale? Riduttivo? No, corretto. C’è la passione, la voglia di emergere, di arrivare, di vincere. C’è l’attitudine al gioco, c’è una cosa che hai sempre fatto ed è l’unica che sai fare bene. Se sei bravo puoi giocare anche basket o baseball, ma se la tua attitudine (e i soldi) dicono Nfl, allora c’è il football. E milioni di appassionati che non ti dimenticheranno mai, anche se non potranno alleviare i tuoi dolori di vecchiaia.
Speriamo che le grida di Ditka e di quelli come lui arrivino un giorno a porre rimedio a questa situazione, ma l’idea che ci siamo fatti è che se vogliamo più sicurezza servono meno colpi, anzi, meno collisioni. E senza collisioni sarebbe ancora football? Sarebbe come chiedere ai pugili di picchiarsi per finta; non c’è violenza se si sta nelle regole, ma è uno sport duro e, per fortuna, non tutti ne escono così male.
Questione di scelte, dicevamo, come quella di Michael Strahan, perfetta per logica e tempismo. Nell’anno in cui hanno detto basta altri grandissimi come Warren Sapp e Brett Favre, anche il capitano difensivo e leader dello spogliatoio tutto dei Campioni del Mondo di New York appende il casco al chiodo. Si è ricordato di essere abbastanza vecchio, e ha ricordato anche a noi che di acqua sotto i ponti ne è passata tanta e non siamo più bambini che urlano davanti ai commenti di Guido Bagatta, il più esperto dei meno esperti tra i commentatori di sport americani.
Che Nfl avremo a settembre? Un opening kick off senza Strahan, un primo Monday Night senza Favre. Un colpo al cuore. Si ritirano da amici ed avversari ed è curioso seguire il filo che, in alcuni importantissimi momenti della loro carriera li ha uniti. Si ritirano con qualche record lasciato per i posteri, con parecchie stagioni alle spalle, con due Super Bowl giocati e uno vinto a testa.
Entrambi usciti da college del sud (Southern Mississippi per Favre, Texas Southern per Strahan), e viste le loro origini da Dixieland non è una gran sorpresa, i due hanno incrociato le armi in momenti che per il defensive end dei N.Y. Giants sono valsi qualcosa di irripetibile. Il record di sack messi a segno in una stagione (20.5), un risultato pazzesco e agevolato proprio da Favre, nell’ultima gara di campionato del 2001, in favore e in onore di un amico e di un avversario leale. Un colpo “chiamato”, tenero, docile, giusto per fare statistica.
E la sfida nell’ultimo Championship di Nfc che, per entrambi, avrebbe potuto essere l’ultima in carriera. Lo è stato per Favre, che ha chiuso il suo ultimo lancio esattamente come aveva fatto col primo: con un intercetto. Una brutta giocata, forzata, figlia di una pessima lettura e di una partita che proprio non voleva girare nel giorno in cui tutto sembrava dover essere dalla parte dei Packers, dal clima al fatto che i più temuti rivali, i Dallas Cowboys, non fossero della partita. L’ennesimo pronostico ribaltato dai Road Warriors che su quel pallone recuperato avrebbero costruito il drive vincente e sarebbero volati a vincere il Super Bowl due settimane dopo.
Con il loro capitano, quel Michael Strahan che dopo il touchdown di Randy Moss nel finale se ne stava là, sulla sideline, a strillare in faccia ai suoi compagni che non era finita. Che avrebbero segnato. Che il risultato sarebbe stato 17-14, quasi come se in campo, in quel momento, ci fosse stato lui a lanciare quell’ovale diventato benedetto per Eli Manning e completamente santificato dalla presa impossibile di David Tyree.
17-14. E così fu, con un ultimo ingresso di Strahan e della sua difesa a proteggere quei tre punti che sono valsi il Vince Lombardi Trophy. E oggi sappiamo che quella fu davvero l’ultima volta di Michael. Strahan, Favre, ma anche Sapp e tutti quelli come loro. Come Olsen non hanno mai pensato alle conseguenze, altrimenti non sarebbero arrivati dove sono arrivati. Hanno scelto e vinto e le porte di Canton, Ohio, si stanno già schiudendo per loro e per tutto quello che ci hanno donato. Non ci avremmo mai rinunciato e, ne siamo convinti, nemmeno loro. E’ cinico pensarci, a volte anche egoistico per noi tifosi, ma con l’augurio che nessuno debba più soffrire in vecchiaia per aver fatto una cosa che ha davvero amato come giocare a football, queste sono le cose che vogliamo ricordare di loro.
Gesta, imprese, vittorie. E collisioni.
Buona pensione ragazzi, ve la siete meritata.
Bello, bello, bello! Credo che solo chi ha calcato un campo da football possa “sentire” quanto sentimento c’
Personalmente non ho calcato mai un campo da football. Ma penso di sentire altrettanto, da ex giocatore (seppur non di football), il sentimento del pezzo e capire che viene dal cuore.
Splendido pezzo ! Davvero complimenti, un concentrato di passione, fatica, dolorore, gloria e amore per questo meraviglioso sport.
Sei grande! Un pezzo magnifico. Uno sport “crudele” e stupendo come nessun altro. I miei pi