Le confessioni di Mr Wing-T

Intervistare Dwayne Hatch, il coach degli Hogs Reggio Emilia, è una cosa che desidervo di fare da anni: non solo perchè è un coach leggendario (più volte nominato high school coach of the year negli USA e talent scout per i Seattle Sehawks della NFL), che ha dimostrato anche in Italia la sua bravura (32 vittorie su 33 partite negli ultimi 3 anni e due titoli consecutivi!); ma anche e sprattutto perchè – non appena gli stingi la mano e parli con lui – capisci che ti trovi di fronte un essere umano dotato di uno speciale carisma, per l’affabilità, la saggezza e la serenità che sprigiona. E inevitabilmente vorresti – a seconda dell’età – che fosse tuo padre, tuo nonno o tuo zio.

Allora,Coach: quando ha iniziato la sua carriera di allenatore di football e che cosa l’ha spinta ad iniziarla?
Ho iniziato ad allenare nel 1961. Ho deciso che avrei giocato a football e sarei diventato un allenatore quando avevo nove anni. Ricordo ancora quel giorno: ero in quarta elementare e giocavo a baseball. Me ne stavo in piedi sulla base di destra e dentro di me dicevo: “preferirei giocare a football e poi, una volta cresciuto, fare l’allenatore”. E’ incredibile vedere che i mie sogni si sono completamente realizzati!
Ho sperimentato il football ad ogni livello. Ho allenato alla Jr. High, alla High School, al college (Southern Virginia University) e anche nei pro, dove, per 5 anni, ho fatto lo scout per I Seattle SeaHawks. Insomma: ho visto il football da molti punti di vista. Ad un certo punto ho persino fatto un corso per diventare arbitro, anche se ho capito subito che non faceva per me: è un lavoro che rispetto, ma è troppo impegnativo! Perciò cominciai a giocare nella squadra di football che si allenava al parco e presto ne divenni anche l’allenatore. Poi sono passato alle squadre delle superiori e infine al college. E’ facile intuire che il football è stato il principale interesse della mia vita, dato che ho allenato per 47 anni e, prima di diventare un coach ho giocato a football per circa 16 anni. Non avrei mai creduto che un giorno sarei entrato nella Coaches Hall of Fame e avrei incontrato così tanti bravi giocatori e allenatori, per non parlare dei loro famigliari e di tutti gli appassionati. Ho avuto una grande fortuna a poter frequentare persone così speciali, che mi hanno aiutato a realizzare i miei sogni.
La cosa più importante che ho imparato facendo l’allenatore è che da solo non puoi fare nulla: il successo, infatti, è possibile soltanto se intorno a te hai persone in gamba che perseguono lo stesso obiettivo.

Ci può raccontare come mai un coach leggendario come lei ha deciso di venire in Italia? Sapeva che in Italia si giocava a football americano?

Nel 1995 ho smesso di insegnare, ma l’idea di allenare mi piaceva ancora. Perciò decisi che avrei fatto l’allenatore part-time: avrei allenato durante la stagione sportiva, in autunno, e nel resto dell’anno mi sarei dedicato ad altre cose. Nell’Agosto del 1999, però, al termine della pre-season alla Sammamish High School (che si trova a Bellevue, Washington), accompagnato da sua moglie Chiara, mi venne a trovare un mio ex giocatore, uno di quelli che avevo allenato alla Bellevue High School e il resto, come si dice in questi casi, è storia. Quel tizio, infatti, era nientemeno che il mitico Luca Cattini (attuale capo allenatore della giovanile degli Hogs e suo vice i prima squadra) chenel 1985, grazie ad un progetto Erasmus, aveva frequentato un anno alla Bellevue H.S e aveva giocato nella mia squadra. Un ragazzo dalle qualità straordinarie. Prima di lui non avevo mai conosciuto di persona un Italiano e ovviamente non avrei mai immaginato che da quelle parti giocassero a football. Quando mi chiese se mi sarebbe piaciuto venire in Italia ad allenare la squadra di Reggio Emilia, gli Hogs, pensai: “Cavoli, loro giocano in primavera e io in primavera sono completamente libero… perché no?” Tra l’altro mi permettevano di portare con me mia moglie Karen e a lei l’idea piaceva moltissimo. E così, nella primavera del 2000, arrivai in Italia. Non sapevo proprio che cosa aspettarmi, perché non avevo la più pallida idea di quale fosse il livello di gioco. L’unica cosa di cui ero certo era che sarebbe stata un esperienza memorabile.

Grazie alle innumerevoli vittorie con la squadra di Reggio Emilia, anche qui in Italia lei è conosciuto come Mr Wing-T. Ci può spiegare perché ha scelto questo sistema di gioco? Aveva previsto tutto questo successo?

Quando divenni l’allenatore capo della Bellevue H.S, nel 1977, avevamo utilizzato con un certo successo la I formation e la split back. Ma non era il successo al quale miravo io. Non avevamo molto talento nella nostra scuola, a quel tempo: eravamo piccoli e lenti, due caratteristiche che nel football non sono certo favorevoli. In the winter of 1980 I attended a coaches clinic in Vancouver BC, Canada. The speaker was Chris Ault, the head coach at the University of Nevada, Reno. Coach Ault utilizzava la Wing T all’università di Nevada e aveva grandi risultati. Mi disse: Non c’è bisogno di avere giocatori molto grossi e neppure molto veloci per giocare la Wing T. perchè si basa su angoli di bloccaggio e finte che confondono la difesa , che non sa mai dove sia la palla”. Le sue parole mi avevano convinto e così, nella stagione 1980, cominciammo a giocare la Wing T: diventammo famosi per essere la Wing t dell’Ovest..
Vincevamo tantissime partite pur avendo meno talento degli altri. Quando poi i talenti arrivarono, diventammo imbattibili. Non avrei mai creduto che la Wing T fosse così efficacie: se oggi sono nella Hall oh Fame, lo devo a lei.

La sua prima stagione in Italia è stata otto anni fa: ritiene che il nostro football abbia fatto dei passi in avanti, in questo periodo?

Ho visto molti cambiamenti e adesso il vostro football mi sembra molto migliorato. In particolare gli Hogs, che trovo estremamente più forti rispetto alla squadra che ho allenato nei miei primi due anni a Reggio Emilia. I giocatori sono più bravi: e questo soprattutto grazie al sistema di reclutamento dei ragazzi nelle scuole che i coaches delle squadre under 17 under 17 e under 21 hanno eseguito con grande intelligenza. Anche il fatto di essersi mantenuti fedeli Wing T – e qui il merito va a Luca Cattini che ha creduto nelle potenzialità di questo modulo – ha fatto sì che i giocatori arrivassero in prima squadra avendo già un’ottima conoscenza della tecnica e degli schemi di gioco. L’inserimento di Giorgio Longhi come defensive coordinator ci ha poi permesso di avere un squadra forte in tutti i reparti, non solo quello d’attacco.

Quale è la sua opinione sul fatto che in Italia, dopo la scissione decisa a fine 2007, abbiamo due leghe e quindi due Superbowl?

Ritengo che tutte queste polemiche interne al movimento non siano una cosa positiva per il football. L’obiettivo principale di chi gestisce il football dovrebbe essere quello di farlo crescere e di attrarre il maggior numero di giovani possibili. Bisognerebbe unire gli sforzi per dare il massimo impulso alla crescita delle squadre e dei campionati giovanili. . C’è bisogno di cooperazione, non di divisione: in questo modo, ad esempio, si potrebbero acquistare grossi quantitative di attrezzature spuntando prezzi più convenienti e quindi rendendo più economico per i giovanissimi avvicinarsi a questo sport. La scissione che si è verificata, purtroppo, ha dato origine ad una situazione paradossale: abbiamo un Superbowl giocato da squadre composte soltanto di giocatori italiani e un Italian Superbowl che verrà dominato dai giocatori statunitensi e dalle loro prestazioni.

Secondo lei acquistare giocatori statunitensi può effettivamente inibire lo sviluppo del vivaio e dei giovani talenti italiani, specialmente nel ruolo di quarterback?

Da quello che ho visto finora, le squadre che hanno giocatori americani li piazzano nei ruoli di maggiore abilità, le cosiddette skilled positions. La mia domanda è: dove sono i quarterback italiani? Dove sono i runnigback italiani, o i ricevitori, o i linebacker, o i difensive back? Se l’obiettivo è far vincere chi acquista i migliori americani, allora va bene così; ma se, invece l’obiettivo fosse – come sarebbe giusto – aiutare i giocatori italiani a crescere il più possibile sino a farli diventare delle stelle , allora occorre che a ricoprire i ruoli chiave siano gli italiani, non gli americani. Fatto che gioverebbe moltissimo alla notorietà del football nel vostro paese, perché è evidente che la gente si interessa veramente ad uno sport soltanto quando chi lo pratica ad alto libello è un connazionale. Fino a quando i protagonisti saranno stranieri, la diffusione del football resterà un utopia. Anche perché – francamente – la maggior parte di loro non mi sembra per nulla interessata alla crescita di questo sport in Italia.

E per quanto riguarda il coach? Quanto è importante, per una squadra che vuole crescere, avere un coach Americano?

Credo che l’allenatore americano possa essere molto utile nell’insegnare le basi del gioco, specialmente quelli di high school. Infatti, mentre fare il coach nella NFL significa soprattutto gestire il budget nelle contrattazioni con i giocatori e mentre al college devi selezionare i migliori talenti, allenare nelle high school significa – prima di tutto – insegnare i fondamentali. Nelle scuole superiori, gli allenatori non possono scegliere i giocatori, ma devono utilizzare quelli che arrivano e tirare fuori il meglio da loro, per essere competitivi. I talenti, a questo livello, vanno e vengono e quindi, se vuoi avere successo, devi scegliere un sistema e sfruttarlo al massimo. Come ho fatto io, che mi sono affidato alla Wing T per trent’anni di fila: sono riuscito a farla funzionare al meglio e non ho mai rischiato il posto.

Visto che ormai l’Italia la conosce piuttosto bene, le chiedo: che cosa le piace e che cosa detesta del nostro paese?

Quello che mi piace dell’Italia sono le persone. Sono state veramente accoglienti e gentili con me e mia moglie Karen e noi gli siamo molto grati. Ho la sensazione che qui in Italia, dovunque tu vada, la gente sia fondamentalmente buona e generosa e desideri aiutarti. Ovviamente nessuno è perfetto, ciascuno ha i sui problemi: ma resta il fatto che tutti quelli che abbiamo incontrato ci hanno sempre trattato con grandissima gentilezza e rispetto. Specialmente i giocatori e gli allenatori degli Hogs, ai quali siamo molto riconoscenti e affezionati. Ma anche i nostri vicini di casa, a Reggio Emilia e Correggio, si sono dimostrati eccezionali.. per quanto riguarda il paesaggio non sarò certo il primo a dire che è incredibilmente bello. Vi posso garantire che tutti i nostri amici americani sono molto invidiosi della possibilità, che io e mia moglie abbiamo, di soggiornare 4-5 mesi all’anno in Italia. Ci chiedono sempre come facciamo ad essere così fortunati: e noi gli rispondiamo che dobbiamo tutto agli Hogs e alla Wing T! Non c’è nulla che detesti, dell’Italia, anche se non tutto il vostro cibo mi piace (però la pizza e la pasta, sì!) e guidare sulle vostre strade è una vera impresa! L’unico dato veramente negativo mi sembrano i bagni pubblici, spesso in condizioni penose. Ma questo, come si dice è un altro discorso.

Ultima domanda, ma non cero per importanza: tornerà in Italia, il prossimo anno?

Il prossimo anno per me è ancora lontano e me ne preoccuperò soltanto dopo il Superbowl. Sapete, ogni anno nella nostra squadra ci sono tantissimi cambiamenti e magari la dirigenza degli Hogs, per il prossimo anno, preferirà fare altre scelte. Io, tra l’altro, non sono più tanto giovane e partite così emozionanti come quella contro i Marines possono farti finire all’ospedale! Quindi dipenderà anche dal mio stato di salute. Senza contare che abbiamo 5 figli e 20 nipoti, negli Stati Uniti, e forse è ora che ce ne occupiamo un po’ di più. Però qui in Italia e a Correggio, dove alloggiamo, ci siamo trovati così bene che, nonostante i problemi linguistici, chi vorrebbe andarsene? Vedrò anche che cosa faranno i veterani: è probabile che se si ritirano loro, mi ritiri anche io. E una decisione complessa che mi riempie di dubbi. Quello che è certo è che questa esperienza in Italia è stata meravigliosa e ce la terremo per sempre nel cuore. Quindi grazie a Luca Cattini per averci invitato qui, nel lontano ’99, grazie a tutti i giocatori e gli allenatori degli Hogs, alle persone che gravitavano intorno alla squadra e tutto l’ambiente del football italiano: abbiamo un debito di gratitudine grandissimo nei loro confronti, per averci consentito di far parte di questa avventura.

Ciao, per il momento
Coach Hatch