West Virginia, la grande delusione

Il primo mese di college football è agli atti, le sorprese finora non sono state tante quante l’anno scorso, dove ogni fine settimana si poteva parlare di upset weekend, qualche grande squadra è caduta ma al momento le conferme di chi era previsto in alto e ci è effettivamente rimasto sono abbastanza numerose, anche se la strada da fare è ancora molta, e lunghe pagine di storia collegiale devono ancora essere scritte.

Pur andandoci piano con giudizi prematuri, ma dovendo comunque fare i conti con una realtà molto severa, all’interno della quale un paio di sconfitte possono determinare in negativo una stagione anche appena cominciata, la palma di delusione delle prime quattro settimane di gioco spetta indubbiamente a West Virginia, seria indiziata per la partecipazione alla finalissima di gennaio, ed in cerca di redenzione per l’opportunità perduta nel campionato scorso dopo un’incredibile sconfitta proprio in vista del traguardo contro Pittsburgh.

Non è stato facile gestire una offseason particolarmente turbolenta, dove le dubbie dichiarazioni d’amore eterno di Rich Rodriguez (non che lui se la passi comunque meglio, in quel di Michigan) nei confronti di un programma che lui stesso aveva portato così in alto hanno lasciato ben presto il tempo che trovavano, avendo modo di essere facilmente etichettate come semplici parole di circostanza, le stesse, per intenderci, che servono solamente a mantenere false speranze su chi, alla causa, ci teneva davvero.

La transizione della faccenda era quindi sfociata nell’assunzione di Bill Stewart, presente sulle sidelines già nella bella partita vinta dai Mountaineers contro Oklahoma nel Fiesta Bowl, e firmatario di un interessante contratto poi ridiscusso un paio di settimane fa, tramite l’inserimento di una clausola di rescissione da parte dell’ateneo (ovvio, profumatamente pagata) che fa sentire puzza di bruciato, quasi l’alta dirigenza della scuola avesse intuito di non poter andare lontano con il nuovo head coach.

Nessuno si aspettava di vedere Pat White (nella foto) e compagni appiedati a quota 1-2 in virtù delle sconfitte arrivate dalla intraprendente East Carolina e dalla sorprendente Colorado, colpa di un passing game inesistente, dei troppi turnovers trasformati in punti dagli avversari e di un running game incontenibile solo a tratti. Certo, quando White trova il giusto varco e prende il sopravvento in accelerazione non c’è essere umano in grado di fermarlo, ma è altrettanto vero che un gioco di corse che può essere fermabile anche solo per tre o quattro drives di una gara può rappresentare davvero una problematica frettolosa da risolvere. Se poi per aria arriva poco o nulla…

Mentre i Mountaineers cercheranno ossigeno all’interno della Big East, dove nulla è tutt’oggi precluso, il palcoscenico principale del festival vede Usc e Georgia come squadre di primissimo piano, con i due atenei seriamente candidati a trovarsi uno di fronte all’altro a gennaio inoltrato.

Southern California ha legittimato e rafforzato la prima posizione assoluta del ranking nazionale con l’ormai nota vittoria contro Ohio State in quello che doveva essere uno showdown, rivelatosi poi una contesa a senso unico, ha giocato un football a tratti dominante e sembra avere ben poche concorrenti, soprattutto divisionali, di cui doversi preoccupare da qui alla fine della regular season.
Coach Pete Carroll potrebbe avere per le mani la squadra più forte e completa da quando allena i Trojans, ma non per questo ha rinunciato ad un fondamentale lavoro psicologico sui propri ragazzi, che per arrivare al National Championship dovranno anzitutto non prendere le cose alla leggera: il pericolo, anche in una Conference apparentemente meno competitiva che in passato, è sempre dietro l’angolo (Stanford 2007 docet – ndr), vincere con due touchdowns di scarto può annoiare ma anche ingannare, ecco perché in vista dell’inizio degli impegni interni alla Pac 10, Carroll sta enfatizzando come non mai il concetto di trattare tutti gli avversari allo stesso modo, partendo proprio dalla prima antagonista di Conference dell’anno, Oregon State.

I Georgia Bulldogs rimangono invece all’inseguimento di quella prima piazza che gli addetti ai lavori avevano accreditato loro prima della partenza della stagione, una piazza energicamente pretesa dai giocatori nel gennaio scorso ma mai arrivata a causa di un paio di avventure andate male (leggasi sconfitte) recuperate in precedenza, di cui il sistema computerizzato BCS aveva tenuto fin troppo conto.

Dopo la spauracchio evitato di poco contro South Carolina, dove un fumble in endzone del running back Mike Davis aveva consegnato il pallone decisivo nelle mani della difesa di Georgia, l’imbattibilità è stata mantenuta in una partita ritenuta difficile in sede di pronostico, in una trasferta (la più lunga degli ultimi cinquant’anni dei Bulldogs) ad Arizona State, rivelatasi ben più agevole di quanto preventivato.

Proprio nel momento in cui Knowshon Moreno, il running back volante, si trova nel mezzo di tutte le attenzioni del caso per motivazioni strettamente legate alla parola Heisman, è emerso un true freshman che definire uno scherzo della natura risulterebbe persino eufemistico: ad A.J. Green, 6’4’’ per 200 libbre, è bastato un solo tempo per distruggere da solo le secondarie dei Sun Devils, frazione nella quale ha fatto registrare 7 ricezioni per 150 yards ed un touchdown, andando a prendere ogni tipo di pallone proposto dal concreto Matthew Stafford, sfruttando una differenza di centimetri sin troppo evidente rispetto ad ogni difensore messogli alle calcagna.
Green, in sede di recruiting, era stato classificato come il secondo miglior ricevitore d’America dietro al fenomeno di Alabama, Julio Jones: indovinate un po’ chi sarà l’avversario dei Bulldogs del prossimo sabato, tra l’altro con serie implicazioni di ranking…..se avete pensato ai Crimson Tide, sappiate che la risposta è esatta.

In troppi stanno probabilmente sottovalutando l’ennesima buona partenza di Oklahoma, forse per i due flop consecutivi che i Sooners hanno patito nelle ultime postseasons, ovvero la famosa debacle di Davide contro Golia del 2007 (Boise State) e la sconfitta contro West Virginia nel 2008, sta di fatto che Sam Bradford (882 yards, 12 TD) al momento è il miglior quarterback collegiale d’America alla pari di Chase Daniel della rivale Missouri, i punti messi sul tabellone dal quarto attacco della nazione non sono mai stati meno di 50, ed il football giocato dai ragazzi di Bob Stoops è a tratti celestiale. Il che rende particolarmente appetibile l’ostacolo Texas Christian del prossimo weekend, dove la potenza offensiva dei Sooners dovrà fare i conti con una difesa che concede appena 30 yards a gara su corsa, ed è sesta assoluta per punti concessi (7.8).
Gli Horned Frogs, inoltre, non hanno concesso alcun punto agli avversari nei quarti periodi sin qui disputati, statistica che Bradford, Iglesias e compagni cercheranno di rovinare a tutti i costi per mantenere la credibilità sinora acquisita e rimanere saldamente ad un secondo posto della Top 25 più che meritato.

All’interno di un panorama che vede alcuni raggruppamenti (la Acc su tutti, ma di questo parleremo prossimamente) in declino dal punto di vista competitivo, la Sec è vista come la Conference più dura di tutta la nazione, tanto che i giornalisti americani l’hanno definita un vero e proprio bagno di sangue, che meriterebbe di vedersi assegnata una finale tutta propria per il diritto al titolo nazionale.

Il fuoco incrociato tra quattro delle papabili protagoniste del gruppo è cominciato con la spettacolare sfida che ha visto i campioni in carica di Louisiana State portarsi a casa d’un soffio un temibile scontro con Auburn, con i Tigers di Lsu intenti a navigare in acque non troppo sicure in cabina di regia. Per la maggior parte della serata difatti, Andrew Hatch e Jarrett Lee hanno giocato sostanzialmente male, non riuscendo a dare un ritmo al reparto offensivo e commettendo costosi errori tramutatisi in punti per gli avversari, davanti nel punteggio per tutto il primo tempo. Les Miles, per rimediare alla situazione, si è affidato ad una pesante dose di Charles Scott, 132 yards su corsa con conseguenti aperture di diverse brecce all’interno di una difesa che aveva contenuto molto bene il running game dei tre avversari precedenti, ed ha aperto pure la borsa dei trucchi al momento opportuno, consentendo un touchdown pass del running back Keiland Williams a terzo quarto scaduto. Il gioiello finale, arrivato in risposta all’ennesimo vantaggio di Auburn, è arrivato con un passaggio da touchdown del redento Lee per Brandon LaFell con un minuto da giocare, consentendo la riuscita di un’eccitante rimonta (oramai tipica delle sfide interne alla Sec) ed il superamento del primo grande ostacolo di Conference per l’ateneo della Louisiana.

Nell’altra grande partita della conference, Tim Tebow ed i suoi Gators non hanno dovuto faticare a tal punto per superare le insidie che presentava una trasferta a Tennessee, smantellata in nemmeno tre quarti da un attacco pieno di soluzioni vincenti e da uno spettacolare ritorno di punt di Brandon James, in una gara dove la doppia minaccia bianca è stata utilizzato per il minimo indispensabile sulle corse (è intenzione di Meyer risparmiargli più botte rispetto allo scorso anno) e nella quale il tight end Aaron Hernandez si è ulteriormente confermato come bersaglio per la redzone scongiurando l’ipotetica assenza d’alternative provocata dall’infortunio del titolare Clint Ingram, senza poi contare il potenziale offensivo del tuttofare Percy Harvin.

Florida mantiene la quarta piazza assoluta della nazione dando l’impressione di giocare con il freno a mano tirato, facendo tutto il necessario che serve a vincere con uno sforzo apparentemente minimo. Rispetto allo scorso anno la situazione sembra lievemente capovolta, con l’attacco che dà una sostanziosa mano all’attacco, limitato al compitino, e non viceversa: un reparto difensivo che ricominciasse a fare big plays era tutto ciò di cui Florida necessitava per tornare nel mix delle squadre di alta classifica, se poi Tebow dovesse ricominciare ad essere sguinzagliato con costanza, si salvi chi può.

Premesso che di molte squadre e giocatori parleremo dedicandovi maggiore spazio in futuro, ci pare giusto segnalare la storica prova di Colt McCoy, quarterback di Texas, contro Rice, che ha superato il record d’ateneo di passaggi da touchdown un tempo detenuto da Major Applewhite, arrivando a quota 62 con diverse partite ancora da giocare prima del termine della sua eleggibilità, nonché quella del running back di Michigan State, che ha collezionato la terza partita consecutiva oltre le 100 yards.
Le 143 portate stagionali di Ringer sono il secondo maggior numero di snaps affidati ad un singolo giocatore degli ultimi 12 anni, e le 699 yards con 11 mete di parziale, in sole 4 partite giocate, proiettano il giocatore a cifre astronomiche se tali medie verranno mantenute. Anche per un componente dei non pubblicizzatissimi Spartans, dunque, potrebbe esserci un ingresso nella corsa al prestigioso Heisman Trophy.

Chiudiamo con un doveroso richiamo alla vicenda di Dante Love, (ex) wide receiver di Ball State, che non potrà giocare più a football a causa del grave infortunio alla spina dorsale sostenuto sabato scorso contro Indiana, ma che potrà comunque vivere una vita felice anche senza lo sport attivo. Dopo l’intervento d’urgenza eseguito all’ospedale di Bloomington, durato cinque ore, la salute del ragazzo non è più in pericolo, in quanto il movimento dei quattro arti è avvenuto con successo. Il prossimo passo è una lunga e faticosa riabilitazione ma, almeno per una volta, il peggio è stato scongiurato.

Dispiace, certamente, perdere agonisticamente un ragazzo con floride prospettive anche a livello professionistico, che lascia il football nell’anno conclusivo della propria eleggibilità, con 2778 yards e 20 touchdowns accumulati per la maggior parte nelle stagioni da sophomore e junior, una carriera “stroncata” sul punto più bello, nel momento in cui un ragazzo di belle speranze trova le conferme di poter diventare qualcosa di molto più importante.
A febbraio, magari, lo avremmo visto alla Combine di Indianapolis. In aprile lo avrebbe probabilmente chiamato una franchigia Nfl. A settembre avrebbe messo piede in campo con un casco ed un’uniforme da professionista.

In questi casi, tuttavia, sarebbe stato ben peggiore se oltre al danno si fosse materializzata anche la beffa, se il resto della vita Dante avesse dovuto viverlo dalla prospettiva di una carrozzella, magari con una paralisi addosso. In quel caso, il prezzo per giocare e vedere del football spettacolare, sarebbe stato davvero troppo caro, e tale prezzo, purtroppo, in molti l’hanno dovuto pagare in passato. Meglio così.

In bocca al lupo per tutto.