Roma, inverno-primavera 1978/79

I pionieri devono coniugare la visione del sogno con la pratica della dura realtà: non c’è un campo, non ci sono attrezzature, qualcuno si rompe e qualche altro, alle volte, salta gli appuntamenti. E gli sguardi e le ironie degli “altri sportivi”, quelli dello “sport che conta” o dei tecnici da bar. Non importa, il sogno è grande e, ogni tanto, scomodo. Ma tant’è.

La bella vita sull’erba” ricorda Marcello “dell’Overseas School durò poco e tutti noi fummo costretti a trasferirci sulla ben più dura terra del campo del Dopolavoro INAIL di Tor di Quinto. A sostituire Quindry e Moroni, giunse un americano di chiare origini italiane che studiava  medicina all’Università di Roma: Mario Jay Fatigati.

Il gruppo si allargò e fra quelli che arrivarono ad ingrossare le nostre fila, ricordo Jones, il primo giocatore americano del nostro football, anche se parlava con una simpatica inflessione trasteverina, Fenuccio, Annoscia, Militello, Volterra e tanti altri.

Il nostro grande problema era la totale mancanza di attrezzature, per cui i nostri allenamenti assomigliavano assai più ad uno strano rugby che non al football americano vero e proprio, cosa che del resto era confermata dal continuo afflusso di rugbisti romani al nostro campo.

Per un paio di mesi la cosa più difficile fu mantenere vivo l’interesse, sempre in attesa di caschi e paraspalle dagli States.

L’abilità di Marcello & Co. stava anche nel tenere vivo anche il  football parlato, bussando alle porte dei giornali romani: rispondono via via “Porta Portese” ( con l’articolo a tutta pagina  di Andrea Marini “IL FOOTBALL AMERICANO ORA ANCHE IN ITALIA),  il “Corriere Laziale” con “E’ ARRIVATO UNO SPORT CARICO… DI SPETTACOLO”, il “Corriere dello Sport” che titolerà “ROMA VA ALLA SCOPERTA DEL FOOTBALL AMERICANO” e “LUPI E GLADIATORI CHIEDONO UN CAMPO PER GLI ALLENAMENTI”. Tutti articoli datati 1979.

Eppure riuscimmo nell’impresa, perchè un pomeriggio un Beneck entusiasta mi comunicò al telefono:“Sono arrivate le attrezzature!”

Ricordo che andammo a ritirare gli scatoloni con la macchina di Stefano Franchetti e fummo costretti a fare due viaggi per depositare tutto nella cantina di mia nonna, proprio nel palazzo dove abitavo, a Vigna Clara. Poco importava  che le attrezzature erano in tutto una ventina e noi in realtà eravamo più del doppio, avremmo fatto dei turni per indossare quelle armature e quei caschi color oro della Rawlings. Già, color oro… il fatto era che Beneck da mesi stava inseguendo un obiettivo ambizioso.

Era un vulcano, quell’uomo. Nella sua testa c’era un piano ben preciso: riportare in vita i team con i quattro marchi utilizzati nel 1977 a Viareggio, inserendo i Gladiatori al posto dei Veltri, ed utilizzando le quattro testate sportive di allora che avrebbero sposato ciascuna un team. Quei primi caschi  erano evidentemente destinati ai Lupi, ma tutti noi seguivamo con difficoltà i progetti del Presidente, presi come eravamo dalla gioia di disporre finalmente di tutto quel materiale.

Avevamo in tutto venti caschi e venti paraspalle, così capitava che i primi a giungere al campo per gli allenamenti, erano poi coloro che riuscivano ad indossare le attrezzature; tutti gli altri si allenavano in pantaloncini e maglietta. In tal modo eravamo sempre un bel gruppo già pronto prima dell’orario di inizio della seduta! Al termine le preziosissime attrezzature venivano nuovamente portate via e depositate nella cantina di mia nonna: era un bel andirivieni ogni volta.

Capitò anche che qualcuno chiamasse la polizia, allarmato da tutto quello strano movimento che si svolgeva fra garage e cantina e avendo scambiato i nostri paraspalle per giubbetti antiproiettile: ricordo che quel pomeriggio (già, ci allenavamo di pomeriggio…) almeno sei volanti della polizia circondarono l’uscita del garage del mio palazzo e l’allenamento saltò: impiegai parecchio a  convincere gli agenti che quei caschi e quelle “armature” servivano per praticare uno sport, a loro e alla maggioranza degli italiani, completamente sconosciuto.

Erano gli anni  bui del terrorismo”.

I giovani praticanti, caricati dalla possibilità di giocare un football “vero”, con gli “arnesi del mestiere”, adesso erano veramente pronti a superare un altro gradino di questa incredibile avventura, sulle tracce dei mille snap già fantasticati ad occhi aperti, apertissimi.