Chuck Noll

Charles Henry “Chuck” Noll venne assunto il 27 gennaio 1969 da Dan Rooney per dare una svolta alla misera tradizione della squadra di suo padre Art, i Pittsburgh Steelers, e provare finalmente a vincere. Noll era stato un giocatore dei Cleveland Browns, e aveva alle spalle sette anni di carriera come defensive coordinator a San Diego e Baltimore.

Grande attenzione nei draft, difesa impenetrabile e duro lavoro sia fisico che tecnico. Questa era la strategia che aveva in mente per far vincere gli Steelers e il suo biglietto da visita fu quello di selezionare al draft 1969, con la prima scelta, un certo “Mean” Joe Greene. Oggi fa sorridere che i giornali di Pittsburgh il giorno dopo titolassero «Who is Joe Greene?»

L’approccio di Chuck Noll al team fu abbastanza scioccante. Alla prima riunione con i giocatori, sempre col suo tono pacato, senza strepiti disse: «Siamo qui per vincere il Super Bowl. Ho visto i filmati delle vostre partite e la ragione per cui perdete non è la vostra mentalità, o la vostra psiche o roba del genere. Il problema è che non siete abbastanza bravi; non correte abbastanza veloce, non saltate abbastanza in alto e la vostra tecnica è pessima. Probabilmente per vincere il Superbowl dovrò liberarmi della maggior parte di voi e dovremo andare avanti».

Noll era un formidabile maestro di football, il suo approccio era insegnare, non motivare perché usava dire «se dovessi motivare un giocatore professionista, lo licenzierei». L’aspetto principale nel football era per lui il gioco di squadra, e voleva che i suoi giocatori se lo imprimessero in testa.

Attento e meticoloso ad ogni dettaglio, Noll era estremamente esigente sui fondamentali. Ne sa qualcosa il linebacker Andy Russell, capitano della squadra e fresco di nomina al Pro Bowl del 1968. Quando fu chiamato da Noll, Russell pensò che il nuovo coach volesse congratularsi con lui, invece si sentì dire: «Ho visto i filmati di come giochi e non mi piace: metti male i piedi, vuoi fare l’eroe, cerchi troppo la giocata individuale. Ti insegnerò ad essere più disciplinato, miglioreremo la tua tecnica e farò di te un giocatore migliore». Russell rimase senza parole.

Aveva pazienza nel far sviluppare i giocatori in cui credeva. In questo era aiutato dal clima di assoluta tranquillità nel quale poteva svolgere il suo lavoro. I Rooney, una volta scelto Noll, lo supportarono senza esitazioni anche dopo la sua prima stagione, che si concluse 1-13. Fu soprattutto con Dan Rooney, che succedette al padre Art nel 1975, che si formò una vera e propria amicizia. A chi gli chiedeva come faceva a gestire la pressione, lui con semplicità rispose che la pressione la sente chi non sa cosa sta facendo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fu senz’altro con Terry Bradshaw che Noll dimostrò di saper aspettare chi riteneva un campione. Arrivato nel 1970 con la fama di predestinato, Bradshaw incontrò molte difficoltà, non aiutato dal suo carattere solitario. Nel 1974 perse addirittura il posto di titolare a favore di Gillian e Hanratty. Eppure, Noll non ebbe mai dubbi sulle qualità del suo Quarterback, che lo ripagò alla fine scacciando i suoi fantasmi e diventando la leggenda che conosciamo.

O con Rocky Bleier, cui Noll diede la possibilità di recuperare dalle ferite riportate in Vietnam, fino a tornare in squadra e diventare il complemento ideale di Franco Harris.

L’altra caratteristica di Noll e del suo staff fu l’abilità nel valutare il talento. Nei suoi primi draft scelse tra gli altri: Greene nel ’69, Bradshaw nel ’70, Ham, White, Holmes e altri 5 titolari nel 71, Franco Harris nel ’72, fino al culmine di Swann, Stallworth, Webster e Lambert nel ’74. Nell’arco di cinque anni venne capovolta per sempre la storia della squadra e fu imposta una filosofia che è quella degli Steelers di oggi: le squadre si costruiscono nei draft.

In quell’abbondanza di stelle, ognuna con una fortissima personalità, Noll riuscì ad entrare in sintonia con tutti ed a tenere tutti uniti verso un unico comune obiettivo: la vittoria. E ci riuscì nonostante la sua imperturbabilità e il suo atteggiamento distaccato. L’unica frase che ripeteva allo sfinimento in allenamento come in partita era «Whatever it takes», a qualunque costo, e i suoi giocatori sapevano che non avrebbero potuto vincere sempre, ma erano preparati per farlo.

Sulla sideline la sua unica azione era quella che i giocatori chiamavano «The Glare», lo Sguardo. Quando un giocatore sbagliava, Noll si limitava a fissarlo con quello sguardo fermo, fisso, freddo e privo di emozione. I giocatori a cui era destinato lo Sguardo non avevano bisogno di altre parole. Joe Greene nei primi anni di carriera non riusciva a tenere a bada il suo istinto aggressivo, finché, quando un arbitro lo cacciò per essersi rivolto a male parole verso la crew, Noll lo prese da parte dicendogli «Sai Joe, anche gli arbitri sono persone, e non gli piace che gli si parli in quel modo». Nient’altro, ma come racconta Greene tanto bastò per fargli cambiare attegiamento.

Solo una volta abbandonò il suo leggendario distacco, subito prima della partita di playoff nel 1974 tra Steelers e Bills. Il giorno prima si era giocata Oakland RaidersMiami Dolphins. Quella partita era considerata da tutti il Super Bowl anticipato ed erano tutti convinti che i Raiders, che avevano vinto, sarebbero stati i futuri Campioni. Anche John Madden, coach di quei Raiders, si lasciò andare a qualche frase autocelebrativa.

Fu così che Noll, il giorno dopo, alla fine della riunione prepartita, davanti a tutti i suoi giocatori, fece forse il suo unico discorso motivazionale: «Ragazzi, ad Oakland sono tutti convinti che ieri si sia giocato il Super Bowl fra le due migliori squadre della NFL. Io vi dico che non è così. Il Super Bowl si giocherà fra due settimane e la miglior squadra del campionato è qui dentro a questo spogliatoio».

Da quel momento tutti i giocatori, a partire da Joe Greene, si convinsero che avrebbero battuto chiunque si fossero trovati davanti.

E così fu per tutti gli anni ’70. Una decade di successi e di giocatori straordinari.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Durante tutto quel periodo magico, Noll era l’unico allenatore NFL che non tenesse un suo programma radiofonico o che rifiutasse qualunque pubblicità gli proponessero di fare. D’altra parte ai suoi giocatori diceva sempre di non prendere decisioni basandosi sul denaro, ma sulla felicità. Era così inviso ai giornalisti, per essere così poco «mediatico», che vinse il premio della stampa «Coach of The Year» solo nel 1989.

Nei primi anni ’80 i giocatori artefici di quel miracolo sportivo si ritirarono carichi di successi e di yards. E i ricambi non riuscirono ad essere all’altezza. Tranne qualche eccezione, Noll e il suo staff non ebbero lo stesso successo nel draftare i talenti, soprattutto nella posizione di Quarterback, in cui si succedettero Malone, Brister e O’Donnell (non proprio dei fenomeni).

La squadra raggiunse i playoff quattro volte, senza però arrivare a giocarsi il Super Bowl.

Alla fine della decade si rivide qualcosa di buono con il draft di Dawson al centro della OL e con una difesa rinvigorita dai giovani Rod Woodson e Greg Lloyd, diretti da un giovane e promettente Defensive Coordinator: Tony Dungy.

Noll chiuse la sua carriera da allenatore degli Steelers alla fine del 1991, dopo 342 partite di Regular Season (193-148-1) e 24 di Postseason (16-8) e 4 Super Bowl giocati e vinti.

Fu introdotto nella Hall of Fame nel 1993, presentato enfaticamente dall’amico Dan Rooney, alla rumorosa presenza di moltissime Terrible Towel. Come suo solito, fu lui nel suo discorso a distaccarsi da quel clima di celebrazione: «Se c’è una cosa che gli Steelers degli anni ’70 hanno dimostrato è che nel football ciò che più conta è il lavoro di squadra».

 

 

 

 

 

 

 

 

Il lavoro di squadra, e qualcuno che lo sappia insegnare, whatever it takes.