Fattore Fortuna
Dopo che per 13 anni, in pratica dall’inizio del 21° secolo, un appassionato di football vede una squadra giocare 11 volte i playoffs, con 8 Divisional, 3 finali di Conference e 2 apparizioni al Superbowl, il grande ballo, l’evento più unico ed elettrizzante del nostro pianeta, diventa quasi un’abitudine pensare a quella franchigia ed associarla immancabilmente alla postseason.
Se poi quella squadra sono gli Indianapolis Colts, il pensiero va immediatamente al loro quarterback, dato che i risultati finora ottenuti sono pressoché indissolubilmente legati alle eccezionali qualità di un giocatore straordinario, un assoluto protagonista dei nostri tempi, con quel cognome ‘Manning’ tanto ‘familiare’ che il solo pronunciarlo basta per avviare una conversazione sul ruolo di gran lunga più importante e difficile del nostro amato sport.
D’altronde non può essere altrimenti, ché per quale e quanto talento gli sia circolato attorno in tutti questi anni, Peyton è finora l’unico player nella storia della NFL ad aver vinto per 4 volte il trofeo di MVP – Most Valuable Player, il giocatore di maggior valore, appunto, di una stagione.
Poi, all’improvviso, senza avere quasi il tempo di riuscire nemmeno a programmare una sua futura sostituzione, tanto inevitabile per età quanto in effetti impossibile al solo pensarla, di colpo i Colts restano senza il loro faro e la luce si spegne. Peyton Manning subisce un infortunio grave, in un punto tra i più delicati per il suo ruolo: è costretto a sottoporsi a ben 4 interventi chirurgici al collo e così diventa facile iniziare a credere che possano fargli finire anzitempo un’incomparabile carriera. La squadra precipita inesorabilmente all’ultimo posto tra le 32 franchigie della lega. Un anno di purgatorio, che per un giovane tifoso, abituato a veder giocare i Colts anche nel mese di gennaio, vale l’inferno.
Ma le regole delle “scelte”, poste a salvaguardia dell’equilibrio competitivo del Football professionistico, assicurano subito la possibilità di scegliere un successore, e soprattutto di farlo prima degli altri. Occorre però individuare il prospetto giusto, il migliore, un talento che possa far rivivere in tempi congrui i fasti trascorsi, non il nome di grido del momento o quello più gettonato dai mass media, ma un quarterback in grado di trascinare nuovamente Indianapolis al Superbowl.
E’ una decisione importante, fondamentale, per la quale occorre persino un pizzico di fortuna. Un po’ come accadde 15 anni fa, nel 1998. Anche allora c’erano due eccellenti quarterback provenienti dal college, con scout e analisti che discutevano su chi fosse il migliore e dovesse essere selezionato prima. In tanti (ve lo assicuriamo) preferivano il formidabile braccio e il grande potenziale di Ryan Leaf, QB dei Cougars di WSU (che poi andò con la 2^ assoluta ai Chargers – ndr) rispetto alla maturità della safer pick riconosciuta: Peyton Manning da Tennessee. Non c’è che dire, una selezione che avrebbe potuto cambiare la storia sportiva di due franchigie e non solo.
A Stanford c’è un quarterback che da almeno due anni domina la Division I del College Football, e che ha portato un programma tanto particolare dal punto di vista accademico quanto circoscritto dal punto di vista sportivo a livelli mai raggiunti prima. Per ottenere una borsa di studio in quell’ateneo non basta infatti saper giocare a football, serve anche una ‘mente’ adeguata, la mastermind che quel ragazzo 23enne di 1 metro e 93 cm per 107 chili di peso ha certamente mostrato di possedere. Ciò che più colpisce chi lo guarda è infatti la sua maturità in campo, la capacità di guidare una squadra sulla LOS con la stessa lucidità di un veterano. È lui la safer pick del 2012 e non si devono commettere sbagli; di certo non come quello compiuto 30 anni fa (1983) proprio dai Colts, la cui sede era all’epoca in un’altra città (Baltimore – ndr), che selezionarono alla prima chiamata assoluta del draft giusto un gran prospetto QB da Stanford, John Elway, salvo decidere di tradarlo per poi vedergli disputare 5 Superbowl con un’altra maglia.
Stavolta però nessun dubbio. Andrew Luck, figlio d’arte che proprio a Stanford ha battuto il record di passaggi da touchdown (82 td-pass in 3 stagioni) che apparteneva ad Elway (77 td-pass in 4 anni) è il prescelto dei Colts, colui che dovrà gravarsi della pesantissima eredità di Manning, termine di paragone costante che inesorabilmente lo accompagnerà per tutta la carriera, un vero e proprio fardello, altro che “to have big shoes to fill”…
Già, proprio Peyton Manning, l’amico di famiglia dei Luck (Archie Manning e Oliver Luck, i papà di Peyton ed Andrew si conoscono da 30 anni, da quando giocavano insieme negli Houston Oilers – biennio 1982-83 – ndr) nonché mentore di Andrew, il primo che fu sentito al telefono nella non facile decisione di restare ancora un anno al college dopo il trionfale Orange bowl del gennaio 2011 in cui Stanford aveva annichilito Virginia Tech. L’Head Coach di quella Stanford era Jim Harbaugh, colui che aveva risollevato i Cardinal dal fondo della Pac12 portandoli ad un BCS bowl, ma soprattutto aveva reclutato Luck nel 2008 in una high school (Stratford) di Houston, nel Texas.
Già, proprio Harbaugh, l’ex quarterback NFL titolare ai Colts prima dell’avvento dell’era Manning che nel gennaio 1996 aveva condotto Indianapolis nel primo AFC Championship Game della sua storia contro gli Steelers, arrivando pure ad un soffio dal Superbowl XXX.
Quelli che Luck non l’avevano mai visto giocare al college, erano curiosi di vedere all’opera il fenomeno, e all’approdo tra i professionisti Andrew non ha tradito le attese. Correndo un sistema diverso da quello praticato a Stanford nella vertical offense di Bruce Arians, Offensive Coordinator ma anche interim Head Coach della squadra a causa della repentina malattia di Chuck Pagano, ha prodotto statisticamente la migliore season di un rookie quarterback nella NFL, regalando così il premio di miglior coach della stagione e una meritata chance da HC allo stesso Arians (al quale va un grande in bocca al lupo per la sua avventura ad Arizona!). Luck ha infatti chiuso la sua prima stagione NFL con la bellezza di 4.374 passing yards, 323 yard oltre il precedente primato di yard lanciate in una season da un rookie, stabilito appena l’anno scorso da Cam Newton di Carolina (4.051). Nella gara contro i Miami Dolphins ha lanciato per 433 yard in una sola partita, altro rookie record. Da vero masterchef ha condito il piatto con 23 passaggi da touchdown. Ha altresì corso (ma volutamente precisiamo: è andato in “scrambling”) per 255 yard, con altri 5 rush TD. Ciò a dimostrazione che possiede “gamba” e sa come sfruttarla, cosa che da queste parti non si vedeva proprio da quando il quarterback era l’allora 30enne Jim Harbaugh.
Il 75% dei punti segnati nella season 2012 dai Colts è attribuibile a Luck. Un numero inequivocabile, ma che dovrà presto calare sensibilmente se si vogliono migliorare le prospettive future della squadra. In pratica, con una rushing offense a dir poco inefficace (nessuno dei 3 running back impiegati dai Colts – Vick Ballard, Donald Brown e Delone Carter – ha superato la misera media di 3.9 yard a portata e complessivamente i 3 hanno prodotto appena 6 TD su corsa in 16 partite – ndr) e una offensive line che definire “porosa” è quasi un complimento (41 i sack subiti da Luck nel 2012 nonostante la sua evidente mobilità anche nella tasca; per avere un termine di paragone, Peyton Manning ne subì 26, ben 15 di meno, nel 1998 da rookie – ndr), Andrew Luck ha trascinato letteralmente i Colts ai playoffs, con 11 vittorie in regular season, un altro record eguagliato (Dolphins 2008) relativo alle squadre che nello stesso anno solare hanno potuto selezionare nel draft con la prima assoluta.
Nonostante il pochissimo tempo a disposizione per lanciare, stante l’ovvia necessità di fuggire rapidamente alla pass rush avversaria, e la mancanza di un gioco di corsa credibile per mantenere oneste le difese, siano risultati i motivi principali della bassa percentuale di passaggi completati (54.1%) e del numero elevato di intercetti prodotti (18), in pochi hanno oculatamente esaminato la sorprendente capacità di Luck di adattarsi così rapidamente ad un sistema offensivo ben diverso da quello che per 4 anni (compreso l’anno freshman da redshirt) aveva studiato e praticato sotto la guida di Jim Harbaugh (2009 e 2010) e David Shaw (2011) in California. Un sistema, quello di Arians, che già di per se stesso contempla un abbattimento delle percentuali di passaggio, poiché ricerca con costanza la profondità, con evidente maggiore possibilità di eseguire ‘big play pass’ a fronte tuttavia di un tasso non indifferente di probabilità nel generare turnover. Anche per questo viene indicato come “High Risk – High Reward System”, dove tra l’altro risultano importanti la forza di braccio e la capacità di colpire le cosiddette “tight windows”, ovvero gli spiragli che concede la difesa in coverage, come ad esempio quelli tra il cornerback e la safety nelle coperture a zona.
Se la fantastica produttività del ‘nostro’ nella rookie season ha fatto evidentemente comprendere le straordinarie doti del quarterback Luck e l’ampiezza del suo bagaglio tecnico, ovviamente quella filosofia resta ben distante dal sistema precision-matchup che, nato e usato in passato nella costa occidentale degli Stati Uniti, è meglio conosciuto con il termine west coast offense. Una tipologia di attacco in cui l’enfasi è viceversa posta sulla precisione delle tracce corse e sulla capacità del quarterback di elaborare rapidamente i matchup concessi dalla difesa, per servire velocemente i propri target designati (progression reads) principalmente nel corto e medio raggio. Decision making e accuracy del quarterback sono le qualità fondamentali richieste in questo tipo di offense, e se il signal caller non solo possiede quelle ma è anche mobile, rapido nel rilascio e sa lanciare in corsa, può diventare davvero letale.
L’attacco è poi bilanciato dalla power-run, fulcro del sistema, che tra l’altro prevede la presenza di un big back (o fullback) capace anche di ricevere fuori dal backfield e di diventare in qualche occasione persino la prima opzione, come nell’ormai famosissima (e tipica WCO play – ndr) Spider 2 Y Banana, la play action spiegata l’anno scorso da Luck alla lavagna nientemeno che a Jon Gruden nella celebre trasmissione pre-draft “Gruden’s QB Camp” della ESPN. Partendo da una formation ‘Green Right Strong’ e con il flanker nello slot, la giocata mira a colpire appunto il matchup più favorevole concesso dalla defense nella lettura progressiva del QB: 1) FB (che finge di bloccare per il RB e invece corre nella flat), 2) TE (o Y) che corre la “banana route” e 3) FL che corre una shallow cross in underneath (e per questo in gergo è definito “under”).
“Spider” non è invece altro che la slide protection della linea che blocca a zona verso sinistra. La “spider 3” è invece speculare.
Sarà quindi particolarmente interessante verificare il fatturato di Andrew Luck nei familiari schemi del nuovo Offensive Coordinator dei Colts, Pep Hamilton, lo stesso OC che ha avuto a Stanford nella sua ultima stagione al college (2011), ma con il quale ha assiduamente lavorato per due anni (Hamilton era anche QB-coach ai Cardinal, ruolo peraltro ricoperto anche in NFL nei Chicago Bears 2007-09, nei San Francisco 49’ers 2006 e nei New York Jets 2004 – ndr). Hamilton, dopo la partenza anticipata di Luck per la NFL, sempre nel ruolo di OC (che però adesso a Palo Alto chiamano “Andrew Luck Director of Offense”, tanto per inciso – ndr) ha vinto quest’anno il Rose Bowl con i Cardinal, un trionfo atteso da 41 anni.
L’anno prossimo vedremo di sicuro aumentare slant routes e play action. Negli ultimi due anni al college (2010-11) correndo la west coast offense di David Shaw e Pep Hamilton, Luck ha avuto una percentuale di completi del 70.7% e 71.3% rispettivamente, numeri che sembrano obiettivamente fuori portata tra i pro, anche se un netto miglioramento statistico, sia nei passaggi completati, sia nella riduzione del numero di intercetti (con conseguente innalzamento del fatidico ‘QB rating’), non dovrebbe mancare.
Sarebbe stato bello veder giocare subito Luck in quel sistema. Probabilmente così non ci si sarebbe potuti aggrappare ai ‘peccati capitali’ del rating e degli intercetti che assieme alla mancanza di..audience (…) gli sono costati un altrimenti sacrosanto Offensive Rookie of the Year.
Quello comunque rimane il premio dei giornalisti. Per Luck ci sono stati diversi attestati di stima da parte degli addetti ai lavori, i veri protagonisti, ed è ciò che più conta. Peyton Manning, premiato giustamente (seppur con un po’ di nostalgia da parte di chi l’ha tanto amato – ndr) “Comeback Player of the Year” per il suo 2012 ai Broncos, una volta ricevuto il premio dalle mani di Brett Favre e Aaron Rodgers, presente e passato dei gloriosi Green Bay Packers, definiti giustamente due dei più grandi QB della storia della NFL, ha detto: “sono abbastanza sicuro che un giorno io e Andrew Luck presenteremo assieme questo premio” con le telecamere che prontamente andavano ad inquadrare il colpito ma consapevole Andrew.
Per salire su quel palco, da premianti o da premiati, l’unica cosa che conta è vincere. E la voglia di farlo è davvero l’ultima cosa che manca a Luck, come ha capito bene chi l’ha visto eseguire quest’anno i 7 winning drive nell’ultimo quarto di gioco o i 6 comeback, che poi sarebbero un altro record per un rookie.
Il suo faccione da nerd non sarà likeable o telegenico, ma di certo al ragazzo non mancano ingegno, attributi, coscienza nei propri mezzi e determinatezza. Spetterà ora a chi di dovere costruirgli attorno un supporting cast all’altezza, almeno come quello che ebbe Peyton. Ma con un Executive of the Year al primo anno come General Manager è lecito essere ottimisti (in ogni caso ne riparleremo).
Per competere ai massimi livelli servono programmazione, capacità, e come hanno appena dimostrato i campioni del mondo Baltimore Ravens che eliminarono i Colts al WCG, anche un po’ di Fortuna. Ma su quel fattore permetteteci di confidare, almeno per altri 12 anni. Toccando ferro (di cavallo), ovviamente.
http://youtu.be/9jXY11J4Ghc
Per suffragare quanto spiega tanto dettagliatamente l’acuto redattore del pezzo, ricordo che B.Roethlisberger con B.Arians a OC ebbe inizialmente gli stessi identici problemi di Luck. Chiaro che parliamo però di un QB – il #7 B&G – già formato, con tantissima esperienza sulle spalle, e privo di quell’enorme pressione che il rookie col #12 si è portato con se al piano superiore. Dopo un inizio incerto Big Ben comiciò a rodare e a fare – con M.Wallace – i fuochi d’artificio.
Non verificheremo mai se Luck avrebbe fatto lo stesso con un maggiore tempo di apprendistato sotto Arians. E’ un peccato. Mi sarebbe piaciuto vederlo incastonato in un sistema difficile ma affascinante e ricco di promesse per un QB come il “Vertical”
Comunque, ritengo che Luck abbia tutto per condurre una carriera superba al di là di ogni cosa.
Quindi, Good Luck Andrew!
Grazie Emiliano. Io viceversa sono molto contento che Luck torni alla WCO e sono molto curioso di vedere all’opera il “mio” Pep Hamilton, in cui credo molto, in NFL. Secondo me la matchup è più “difficile” della vertical, semplicemente perché richiede un tasso tecnico superiore per essere ben eseguita, con più qualità sia da parte del QB (accuracy, scrambling, throw on the run, ecc), sia da parte dei suoi target (‘mani’ soprattutto). Talvolta nella vertical basta avere un gran braccio e diventi un fenomeno. Nella WCO non è così. Ma ovviamente restano punti di vista. Un caro saluto.
Flacco docet?
Grazie per la risposta 😉
Bell’articolo. Mi piacerebbe sapere la vostra opinione su Seattle e su Wilson.
Ciao Stefano e innanzitutto grazie.
Anche a me piacerebbe tanto leggere di Seattle, su un vero blog dedicato nel nostro Magazine, con magari approfondimenti specifici sui Seahawks e sui loro bravissimi giocatori (e in particolare sui “miei” preferiti, gli ex Stanford Doug Baldwin e Richard Sherman naturalmente). E dato che abbiamo utenti-tifosi molto competenti qui dentro, spero vivamente che ciò si realizzi al più presto.
Detto questo, Russell Wilson a me piace tantissimo. Non solo perché è un ragazzo laborioso, umile ed estremamente talentuoso, ma perché a me piacciono tutti i QB “veri” (come li definisco io) ovvero quelli che al college hanno corso una pro-style, e Wilson fa parte ovviamente di questa schiera, avendo giocato per anni la WCO a NC State prima di disputare una stagione da “fuori corso” a Wisconsin dove è stato semplicemente straordinario nella “two-back power zone offense” dei Badgers. Quelle due esperienze, unitamente ai tools a disposizione, sono risultate fondamentali per farne l’elemento giusto da incardinare nella “outside zone run-option” che Pete Carroll e Darrell Bevell hanno implementato quest’anno nella Emerald City. E Wilson meritava questa opportunità, che probabilmente non sarebbe mai arrivata in un altro sistema. Russell ha delle grandissime qualità, che vanno ben al di là del suo atletismo e della mobilità in campo. Innanzitutto perché è un QB molto tecnico, con un gran braccio e uno splendido rilascio dell’ovale, alto (non per niente è stato selezionato nel 2010 anche 4° round MLB come pitcher) e rapido nell’esecuzione (caratteristica fondamentale nella NFL odierna). E inoltre perché lancia estremamente bene in movimento, una qualità molto importante per un QB da WCO. Il perché sia stato scelto al 3° round lo sappiamo tutti: i suoi 179 centimetri di altezza. E se è per questo gli è andata persino bene: Doug Flutie (stessa ‘nanezza’) venne selezionato all’11° round nel 1985 dai Los Angeles Rams ma, pur avendo esperienze nei Bears e nei Patriots, ebbe davvero la sua occasione in NFL solo 13 anni più tardi nei Bills (poi giocò nei Chargers e ancora a New England, ma come back-up di Drew Brees e Tom Brady). Un QB di 5-11 non lo vogliono al college, figuriamoci in NFL. Per poter emergere così a questi livelli devi possedere qualità innate, non solo saper fare ‘jogging’ . Alla faccia del terzo round. Che tra l’altro è lo stesso in cui venne selezionato il miglior quarterback di sempre. In bocca al lupo Russell.
veramente un bell articolo dettagliato e molto “semplice” da leggere e capire anche per me che di cose tecniche e parole specifiche del football non sono certo un esperto 🙂 continuate cosi che vi leggero sempre con molta curiosità e ammirazione 🙂
Bolca.
Grazie Matteo. Davvero il miglior complimento che potessimo ricevere. Essere “semplici” non è sempre facile dovendo scrivere di uno sport “complicato” come il nostro amato Football. Ma ce la metteremo tutta. Un saluto.