Siamo questi.
Lo scorso recap lo chiudevo così : “Dovremmo poter battere Miami 10 volte su 10 e pensiamo quindi di poterlo fare, ma non lo facciamo perchè la realtà è che ad oggi non valiamo più di Miami.” Pensiero più che mai veritiero dopo la sconfitta coi Bucs. Siamo una squadra da 4-6, siamo “solo” questi qua. Una squadra nel limbo della mediocrità che per un motivo o per l’altro non riesce a dare continuità ed essere semplicemente consistente. Il tutto vale un meritato 4-6 e lo spettro di una stagione anonima.
La partita è difficilmente commentabile. Per la seconda volta Bill Davis è stato portato a scuola dallo staff avversario. Contro Atlanta mise una pezza un attacco prolifico nel secondo tempo, mentre qui l’attacco decide di restare abulico e concedere 45 punti ad una squadra come i Bucs (che ora sono ad un dignitosissimo 5-5) che settimana scorsa aveva fatica a segnare anche un solo TD contro Dallas (squadra che, con Romo in sella, vale più di Philadelphia evidentemente). Ma è la mancanza di effort da parte di tutti i reparti che alla luce di una sfida così delicata per classifica e momentum della stagione, dopo l’ennesima evitabile confitta contro i Dolphins, che pare inaccettabile. Presi a pesci in faccia per 3 quarti dal punto di vista tattico e mentale, con una difesa molle e distratta e un attacco svogliatissimo.
Questa situazione ha portato inevitabilmente ad una isterica ed istintiva “profonda” riflessione sull’operato di Kelly padre-padrone dell’intero progetto da parte del mondo del football. La sua costruzione mediatica e la fama di guru che lo ha accompagnato negli ultimi anni gli si sta ritorcendo contro a metà di una stagione deludente. Eppure nonostante i forconi agitati da tifosi (più comprensibile) e dal più vario dei chiacchiericci sportivi (meno comprensibile) la poltrona di Kelly è più salda di quello che un po’ tutti pensano che sia. Perchè la sovraesposizione mediatica ha alterato la percezione di Kelly nel panorama footbalistico attuale e la voglia di agitare il dito nel più classico del “ah l’avevo detto io” dopo una altisonante, controversa, ma necessaria off season è più forte di qualsiasi vera e reale riflessione sul football giocato. Percezione alterata figlia di un ambiente sportivo (quello di Philly) caldissimo ma isterico, impaziente, con bassa cultura sportiva e avaro di soddisfazioni da troppo a lungo. E figlia di una costruzione mediatica del personaggio che ha fatto comodo alle agende editoriali di tutti i media (e forse anche a Kelly in modo involontario) fin dai tempi di Oregon che è esplosa dopo il suo roboante e inizialmente convincente approdo nella NFL, figlie di scelte in free agency sottolineate mediaticamente ma sempre commentate su basi fragilissime.
C’è un solo modo di commentare l’operato di Kelly ed è in maniera il più possibile lucida e distaccata, cercando di guardare la situazione da una angolazione diversa dalla solita. Ed è per questo che si può dire con certezza, a meno di disastri incalcolabili, che Chip Kelly resterà alla guida degli Eagles nel 2016. Perchè non ha senso abbandonare un progetto che si è resettato di fatto in primavera, perchè c’è bisogno di dare continuità per valutare l’operato con più elementi a disposizione, perchè non è mai mancato l’appoggio di Laurie che si fida a tal punto da avergli lasciato le chiavi della squadra appena qualche mese fa, e perchè nel panorama attuale Kelly non sta facendo peggio di molti altri nomi considerati invece, chissà perchè, solidissimi sulla propria sideline. Ancora una volta è questione di percezione.
La premessa su cui si basa questo progetto Kelly 2.0 è fondamentale per capire a monte i motivi di certe scelte. Gli Eagles avevano un core offensivo di tutto rispetto vicino al proprio prime. DeSean Jackson, Jeremy Maclin, LeSean McCoy e Nick Foles. Dopo stagioni le 2013 e 2014 la dirigenza ha fatto una valutazione di grande lucidità e di onestà intellettuale. Per quanto talentuoso questo core non avrebbe vinto nulla. Sarebbero stati competitivi ma mai abbastanza per vincere in una giungla di talento come la NFL. Gente che approdata ai playoff, nel momento in cui contava, è sparita. E il caso DeSean Jackson è paradigmatico in tal senso, annichilito da Malcom Jenkins nella wildcard 2013. Ed è qui che si inserisce l’all in degli Eagles della scorsa offseason. Provare a smontare un giocattolo bello ma imperfetto per costruirne uno ad immagine e somiglianza del coach, in grado di garantire una sinergia esplosiva tra talento e fit in grado di competere veramente. C’era ovviamente una alta dose di rischio in questa operazione ma con queste basi si possono biasimare le scelte strategiche del front office? E soprattutto si può parlare di questi Eagles senza avere in mente questa precisa idea di “fare football” dietro? Io non credo.
Detto questo se la stagione dovesse finire ora (e considerando prestazioni e calendario si può ipotizzare un fine di stagione sulla falsariga della classifica attuale) si potrebbero fare già una serie di valutazioni. La riflessione deve partire sicuramente da come Kelly ha gestito l’attacco sia in campo che a livello manageriale. Il punto nevralgico da fare è, prima di parlare dei vari Maclin e McCoy, sulla Oline. Kelly ad oggi ha perso due scommesse.
La prima è l’integrità della linea. La rotazione di talento al minimo storico non ha permesso di sostituire Andrew Gardner – che stava migliorando vistosamente di week in week ed era la OG più concreta del lotto – in modo dignitoso, né ha permesso di poter garantire garanzia di qualità al reparto agli stop di Jason Peters dovuti ai numerosi acciacchi. Rispettivamente Matt Tobin e Denis Kelly non sono assolutamente in grado di reggere il palcoscenico da starter, specie in un reparto in ampie difficoltà di suo.
La seconda è stata scommettere sul fatto che due mestieranti come Allen Barbre e Gardner potessero garantire quanto meno una presenza dignitosa in un reparto chiave del gioco di Kelly. Il taglio di Evan Mathis era stato inevitabile – anche se il timing sospetto. La situazione del giocatore era simile a quella che Seattle ha passato con Chancellor. Anche se da una parte c’era una delle S più forti del panorama che chiedeva i soldi che gli spettavano, e dall’altra parte la più vecchia OG a startare in NFL che pretendeva un aumento (soprattutto alla luce di un rinnovo contrattuale relativamente fresco e profumato).
Ma quello che ha tradito in toto Kelly non sono state tanto le due azzardate scommesse perse ma le prestazioni dei due pro bowler già a roster. Era francamente impossibile immaginare delle prestazioni vergognose come quelle di Jason Kelce e di Jason Peters. Se al secondo si possono perdonare qualche défalliance dovute ad età (33 anni) e problemi fisici (anche preoccupanti come quelli alla schiena), il primo è indifendibile. Il Centro è forse l’OL chiave nella offense Kellyana e Kelce sta giocando come uno degli ultimi dei rookie undrafted. Tra blocchi mancati e palle perse per snap sbagliati, Kelce è il volto paradigmatico della stagione degli Eagles. Eppure è stato un fulmine a ciel sereno.
Altra scommessa persa, ma sul breve periodo, è quella legata al reparto WR. Il rinnovo di Maclin in offseason sembrava automatico ed invece il giocatore ha spiazzato un po’ tutti accettando una offerta al limite del folle da parte del vecchio mentore Andy Reid. Questo ha cambiato in corsa i piani di Kelly da parte sua meritevole, dal punto di vista gestionale, di non aver dato oltre 10 milioni ad un giocatore che, al netto del mercato, non valeva quei soldi. Draftando un talento simile a Maclin al primo giro e sperando nella consacrazione di un ottimo Jordan Matthews nella stagione da rookie, Kelly pensava di aver messo una pezza al reparto. Invece Nelson Agholor è sembrato molto indietro a livello di readiness NFL e Matthews non ha retto mentalmente il passaggio a WR1. La quantità di drop collezionata dal reparto è francamente imbarazzante e non ha di certo aiutato l’attacco. Kelly sperava auspicabilmente che qualcuno facesse la breakout season come fece Jackson nel 2013, Maclin nel 2014 o come sta avendo DeAndre Hopkins ad una Houston priva di Andre Johnson (e come Kelly sperava appunto per Matthews per il dopo Maclin) ma i tempi purtroppo non sono maturi. Il talento pare esserci ma semplicemente non è pronto per certe responsabilità.
Per parlare dei running back bisogna digerire prima una cosa che non è stata ancora introiettata da molti. Visto la situazione tecnico-economica la decisione di scambiare LeSean McCoy è stata saggia. E’ stata saggia dal punto di vista finanziario perchè il suo contratto non era facile da muovere, in un panorama in cui il draft sforna RB pronti con una facilità imbarazzante (Bell, Gurley, Hill…) ad 1/5 del costo di McCoy. E il il valore del giocatore sarebbe colato a picco dopo la seconda stagione anonima (il 2014 è stato un anno profondamente negativo per lui, così come lo sarebbe stato questo 2015 visto la performance della OL). La cessione ha liberato 10 milioni e ha portato all’arrivo di un validissimo ILB da 3-4 (quella sì invece merce più rara di quel che si pensi).
Dal punto di vista tecnico la scelta di liberarsi di un giocatore spettacolare ma poco incisivo in ottica di sistema aveva un senso ben definito. DeMarco Murray e Ryan Mathews sulla carta forma(va)no una coppia talentuosa e ottimi fit nel gioco Kelly. Sull’altare sicuramente si è perso il talento puro di McCoy (oggettivamente superiore ai sostituti) ma con i soldi liberati dall’oneroso contratto di fatto si sono presi 3 ottimi giocatori sulla carta perfetti per il sistema. Se Kiko Alonso e Murray sono sembrati ancora poco in palla, Mathews ha confermato le aspettative giocando fino ad ora una bella stagione. Ma è difficile capire dove inizino le colpe di Murray e dove quelle di una delle 5 OL più scarse del campionato.
Bisso di proposito sul capitolo QB e sulla difesa, che saranno oggetto di un approfondimento maggiore a fine campionato, per fare una importante riflessione finale. L’attacco degli Eagles si è infilato in una micidiale spirale di mediocrità. Il sistema up tempo di Kelly non può prescindere dalla perfezione di esecuzione e il sistema no huddle inevitabilmente appiattisce le soluzioni in playbook. Con un gioco così veloce è impensabile avere un playbook ampio come quello di alcuni avversari e la imprevedibilità (come quella mostrata del 2013) è data dal sapere eseguire molto bene entrambe le fasi di gioco offensivo, non dalle numerose soluzioni offensive. Nel momento in cui la squadra fallisce completamente nel eseguire, specialmente le soluzioni su corsa, l’effetto domino è assicurato. Nel momento in cui diventi poco efficace nell’eseguire diventi anche prevedibile perchè, come detto, il playbook è per forza di causa maggiore semplice e ripetitivo e si continua a raccogliere sempre meno.
Come si esce da questa spirale? Con la pazienza. Continuando ad aspettare la maturazione dei giocatori più giovani, capendo gli errori fatti e colmando i reparti dove si sapeva essere carenti. E soprattutto sperando che le scelte fatte paghino effettivamente dividendi quando tutte le pedine saranno al loro posto. Ma pazienza e Philadelphia sono difficilmente compatibili, soprattutto se l’ambiente e i media avevano fatto passare la rivoluzione copernicana di primavera come il passo decisivo verso la competitività e non come uno dei passi necessari ma non decisivi. Il tempo però stringe a Chiplandia a cui rimane una sola offseason per convincere di stare operando veramente nella direzione giusta.
Manuel Tracia