Giant una volta, Giant per sempre

Ci sono storie.

La prima parte della nostra inizia nel 2003 al Vaught-Hemingway Stadium di Oxford, Mississippi, in una giornata artica di novembre. Ole Miss gioca contro Auburn e il General Manager dei New York Giants, Ernie Accorsi, sta gelando – nel vero senso del termine – in tribuna stampa. Probabilmente vorrebbe essere altrove, e invece è andato lì perché vuole vedere questo ragazzino che si chiama Eli Manning, quarterback dei Rebels… E lo vede: Ole Miss perde, male, e Manning termina la partita con un intercetto a una manciata di secondi dalla fine. Ma Accorsi non riesce a stare fermo sulla poltroncina, e non solo per il freddo. Auburn segna a un minuto dalla fine, Manning torna in campo, arriva a ridosso dell’endzone con un bel drive, forza il lancio, intercetto. Fine della partita. Accorsi, anni dopo, dirà: «Non era una questione di numeri o del fatto che aveva totalizzato tre intercetti, oltre a tre touchdown, in quella partita, ma che aveva intorno una squadra con poco talento e lui, dal primo all’ultimo minuto, se ne era fatto carico. Li aveva condotti, davvero. Dopo ogni touchdown avversario, era tornato in campo come niente fosse, fino alla fine. E all’ultimo secondo aveva forzato e sbagliato, ma io ho visto solo un ragazzo che si era preso la responsabilità e che aveva ‘portato’ la squadra sulle sue spalle per tutta la partita».

Ernie Accorsi stila un rapporto di cinque pagine, sviscera ogni aspetto, mostra quanto sia convinto, ma il nodo principale è in un’unica frase, messa alla fine di quelle cinque pagine: “Secondo me, soprattutto, ha quella qualità che non puoi definire.”

Scegliere un giocatore non è una scienza esatta, né una questione di numeri. È fiuto, istinto, il riuscire a vedere oltre le statistiche. Nel libro di Ralph Vacchiano, “Eli Manning: The Making of a Quarterback”, Accorsi confidò: «Milt Davis, scout dei Colts di Baltimora del 1970, mi disse: Ernie si valutano i grandi quarterback su un solo elemento: alla fine possono condurre la loro squadra in campo, con la partita ancora sul filo, e in endzone?»

Un’altra cosa Accorsi sapeva: ci sono giocatori che nascono con qualcosa in più, altri che compensano strada facendo, e quelli che restano dove sono. E lui si stava già preparando per quel che sarebbe accaduto l’anno dopo.

La seconda parte della nostra storia avviene il 24 aprile del 2004 nello scenario del Madison Square Garden di New York. Draft NFL. La prima scelta è in carico ai San Diego Chargers e tutti sanno chi sarà il prescelto: Elisha Nelson “Eli” Manning. Ma – perché c’è sempre un “ma”, come nelle migliori sceneggiature di Hollywood – Manning comunica che in ogni caso rifiuterà di andare ai Chargers. Tutti sanno chi c’è dietro. I Chargers scelgono Manning e durante la notte lo cedono ai New York Giants per Rivers più scelte aggiuntive.

Oggi possiamo dire che la storia ha dato ragione a Ernie Accorsi, e che sia valsa la pena patire tutto quel freddo in Mississippi.

Parlare di Eli Manning senza usare i numeri è arduo perché, a dispetto di quanto dicano i suoi detrattori, quando sei fra i primi dieci QB della storia NFL nelle statistiche principali (settimo per yds lanciate e settimo per TD) vuol dire che sei uno di quei giocatori nati con qualcosa in più. Se a questo aggiungiamo aver riscritto tutti i record dei New York Giants e portato a casa due Superbowl con il titolo di MVP in entrambi, allora non solo hai qualcosa in più, ma sei anche speciale. Se certe cose ti capitano una volta, può anche essere per una serie di fattori casuali o la classica annata buona, in cui tutto va come deve. Con due è già più dura crederlo. La storia NFL è piena di giocatori che hanno preso un anello e poi sono scomparsi; un po’ meno di giocatori che si sono ripetuti, perché allora vuol dire che il caso non c’entra nulla.

 

Ma oggi i numeri non mi interessano, perché Eli Manning è stato altro. Ha fatto qualcosa che è ancora più raro: ha lasciato un segno e scritto una storia che verrà ricordata sulle pareti dello stadio, la cosa più difficile di tutte. Negli anni, ma fin da subito a pensarci bene, è stato evidente che pasta d’uomo fosse Manning. Il personale dei Giants ha sempre descritto un uomo gentile, di cuore. I dirigenti sono sempre stati entusiasti del modo in cui rappresentava la squadra: mai una parola fuori posto, sempre il giusto atteggiamento; e i suoi compagni l’hanno sempre rispettato per la sua responsabilità e il suo desiderio di farsi da parte in modo che gli altri potessero essere lodati. In sedici anni mai una parola è volata su Manning, e da lui mai una sbagliata è uscita sugli altri. Se c’era qualcosa da rimettere a posto, si poteva contare su di lui. Ecco in cosa consiste il segno di cui parlavo: quando da gran giocatore ti trasformi in simbolo, cosa che molti giocatori che scelgono la strada più facile dell’essere clown da riflettori, non capiranno mai. Come non lo capiranno mai coloro i quali hanno sempre inteso il suo stare lontano da riflettori e la sua indole mite come debolezza e scarsità di carisma. Avere carisma urlando può essere facile, averne stando in silenzio è ‘distintivo’.

 

Non dimentichiamo che Eli è cresciuto in una famiglia con un padre quarterback molto autoritario e un fratello come Peyton, sempre quarterback, visto da tutti come il fenomeno di famiglia, l’uomo da copertina. Ma Eli – terzo di tre fratelli perché anche Cooper, il maggiore, era una promessa del football, sempre a Ole Miss, ma a cui fu diagnosticata una forma precoce di artrosi al braccio e conseguente carriera finita lì – ha dimostrato come il sangue dei Manning non si fosse affatto annacquato nell’ultimo arrivato (e, idea mia: Peyton ha insistito a giocare ormai avanti con l’età e a rischio della salute dopo il grave infortunio al collo, solo perché trovarsi a pranzo la domenica con le famiglie e sapere che al tavolo c’era il fratello sfigato con al dito un anello in più, gli risultava inammissibile).

Tom Coughlin, head coach dei Giants che ha legato le sue fortune a Manning, disse che una delle maggiori qualità di Eli era che sapeva ispirare fiducia nei compagni, e a questo proposito ricorderò sempre un’intervista di Brandon Jacobs, runningback che prima di ogni partita fungeva da motivatore esaltando il team, che quando un giornalista gli chiese come vedeva Eli Manning, che invece se ne stava in disparte e in silenzio anche quando la squadra era sotto nel punteggio, rispose: «Voi dovete capire che Eli non ha bisogno di parlare. Noi lo vediamo lì che sembra fregarsene, nessuna emozione, ma sappiamo che sta pensando a come portarci dall’altra parte… e che lo farà. Cavolo, è Eli Manning!»

Una frase che dice molto, perché nell’èra della caccia ai contratti faraonici di giocatori che neanche valgono la metà, Eli appartiene a quella generazione e tipologia di giocatore che ha definito, come dice John Mara, co–owner dei Giants, cosa significhi essere un Giant dentro e fuori dal campo. Perché spesso siamo abituati a vedere e ricordare questi ragazzi con la loro tenuta da gioco, ma usciti da lì spesso sono un mistero, e pochi sanno di come Eli, oltre ad aver ricevuto il “Walter Payton Man of The Year” (2016) e il “Bart Starr award winner” (2020), sia uomo che mai si è risparmiato per gli altri, sia che si tratti di associazioni benefiche come la “March of Dimes” e la Croce Rossa americana o, cosa più per pochi, l’aver aperto la “Eli Manning Children’s Clinics”.

Ma torniamo sul campo. Eli non è stato giocatore esente da difetti, anzi. Chi non lo è? La sua propensione all’intercetto, la scarsa mobilità, le letture a volte forzate e improntate al rischio, hanno sempre fornito argomenti ai suoi detrattori che proprio del quadro d’insieme non hanno mai voluto saperne. Ci sono fatti che non possono essere nascosti, e il primo è che quando fu scelto nel 2004, fu catapultato in una squadra in ricostruzione, molto debole e di certo il suo carattere, non da spaccamontagne, non lo aiutò. Nella prima stagione, dopo che ebbe sostituito Kurt Warner, prese 13 sack in una manciata di partite. In sala stampa, rispondendo alla domanda di un giornalista che gli aveva chiesto cosa avesse detto al ragazzo, Tom Coughlin disse: «Benvenuto nella NFL…»

A ben vedere, nei suoi sedici anni di carriera in maglia blu, Eli ha avuto tra le mani una squadra degna di nota, a dir tanto, per cinque – più qualche sprazzo subito dimenticato – e non è un caso che in quelle cinque stagioni siano arrivati i due Superbowl (sempre con i Giants sfavoriti, e neanche presi in considerazione come contenders a inizio stagione). Per il resto della sua carriera ha dovuto combattere non solo contro gli avversari, ma anche contro un GM, Jerry Reese, che spesso e volentieri lasciava partire i giocatori migliori e li sostituiva con elementi non all’altezza, mettendo nelle mani di Eli una squadra non in grado di lottare ai vertici, e tutti sanno, o quasi tutti, come nessun QB potrà mai vincere le partite da solo. Fare la differenza sì, quando ha intorno un collettivo quantomeno performante, ma mai da solo, altrimenti gente come Brees, Rodgers, Wilson o, per andare più indietro, Favre, Warner, McNabb, dovrebbe avere anelli a grappoli. Appartengo a chi ha sempre pensato che se Eli avesse giocato in un team con più talento, avrebbe avuto concrete possibilità di portare a casa il terzo anello, con buona pace di Peyton.

Se c’è una cosa che Eli Manning ha dimostrato durante la sua carriera, è quella dote che non si può quantificare, né misurare perché non esiste strumento o foglio statistico adatto: e cioè l’essere “clutch”. Esserci nel momento decisivo, quando gli altri si sciolgono. Lasciate perdere il 117 a 117 come record delle sue partite (gli ultimi cinque anni in quella nidiata di scappati di casa che si è trovato tra le mani, incidono eccome). Dimenticate la sostituzione ignobile di quell’headcoach altrettanto ignobile, sostenuto da tifosi ignobili,  che ha interrotto la sua striscia di partite da titolare (mai un infortunio, ricordiamolo, in uno sport che non è proprio come alzarsi la mattina e andare a lanciare teiere sul ghiaccio). Ignorate la sua espressione da cane bagnato che aveva sulla sideline e che faceva ironizzare molti. Eli Manning ha fatto la differenza quando serviva, né più né meno, cioè quel che cercava Milt Davis e che ha insegnato a Ernie Accorsi.

Manning verrà ricordato per due episodi soprattutto, tra gli altri: la palla lanciata a David Tyree nel primo Superbowl, contro gli invincibili Patriots della perfect season, dopo essere sfuggito a tre sack praticamente fatti; e il lancio a Mario Mannigham quattro anni dopo, sempre in un Superbowl contro i Patriots, palla che neanche il teletrasporto di Star Trek avrebbe messo lì dove andò.

 

“Cerca il quarterback che sa condurre la squadra in campo e portarla in endzone” diceva Davis. Il numero di quarterback nella storia della NFL che l’hanno fatto per vincere il Superbowl all’ultimo minuto è piccolo, tanto. E Manning l’ha fatto per due volte.

Il suo talento è sempre stato direttamente proporzionale al suo essere divisivo. Uno della categoria di quei giocatori che o ami, o odi. Mai indifferente però. Le opinioni sono sacre e ognuno ha le sue, tuttavia ancora oggi tocca leggere commenti di chi dice come tra Manning e Fitzpatrick alla fine non ci sia differenza, o chi afferma che tra lui e un Cam Newton cieco da un occhio e con una gamba sola, sceglierebbe quest’ultimo. E io ne sono felice perché al giorno d’oggi c’è un gran bisogno di ilarità.

24 gennaio 2020: Eli Manning annuncerà ufficialmente il suo ritiro in una conferenza stampa. Lacrime a fiotti, anche mie, che diavolo. E già so che non sarò l’unico.

E noi lo ringraziamo per i sedici anni che ci ha regalato, nel bene e nel male. E soprattutto per il segno che ha lasciato nella franchigia e in tutti noi.

I buoni giocatori sono tanti. Gli ottimi giocatori un po’ meno. I grandi, pochi. Ma i simboli sono davvero rari. Ed Ernie Accorsi, quel gelido giorno di novembre di diciassette anni fa, ne pescò uno, circostanza che è in grado di definire l’intera carriera di un general manager.

Ci sono storie di cui non vorresti mai raccontare la fine, ma che comunque ami perché hanno fatto la differenza in uno sport e in un gruppo di tifosi al quale appartieni.

E tu, Eli, sei una di queste.